La Cina ha annunciato la decisione di ricorrere all’Organizzazione mondiale del commercio, in risposta alla decisione di Trump di imporre dal 24 settembre dei dazi doganali del 10% sulle importazioni cinesi, per un valore pari a 200 miliardi di dollari, e non finirà qui: l’aliquota Usa fissata salirà al 25% dal primo gennaio 2019.

«Se la Cina effettuerà azioni di rappresaglia contro i nostri agricoltori o altre industrie – ha specificato Trump subito dopo l’annuncio – intraprenderemo immediatamente la terza fase, che riguarda circa 267 miliardi di importazioni aggiuntive».

Secondo Pechino l’applicazione degli ultimi dazi Usa è una mossa che «viola le regole del Wto», si legge nella nota diffusa dal ministero del Commercio, e non si fa spaventare dalle minacce di Trump; oltre a rivolgersi al Wto Pechino ha infatti deciso di applicare – a sua volta – dazi tra il 5 e il 10% sulle importazioni americane, per un valore di 60 miliardi all’anno; anche le tariffe doganali cinesi entreranno in vigore il 24 settembre.

Con i dazi applicati precedentemente, ora, quasi la metà delle merci cinesi che entrano negli Usa verranno tassate e, se fino ad ora i dazi erano rivolti ai prodotti industriali, questo round riguarda cibo, articoli per la casa, ed elettronica, esclusi i prodotti Apple. Lunedì Larry Kudliw, consulente economico della Casa bianca, aveva confermato che la decisione sull’applicazione di nuovi dazi statunitensi su beni cinesi era attesa «a breve», in quanto Trump «non è soddisfatto dei colloqui con la Cina», aggiungendo poi che gli Stati uniti restano comunque aperti al dialogo.

È difficile immaginare come questa apertura possa essere reale: la ripresa dell’escalation nella guerra commerciale rischia di compromettere nuovamente i rapporti tra Pechino e Washington, a partire dall’incontro fra il segretario del Tesoro Usa, Steve Munchin, e il vicepremier cinese Liu He, pianificato per il 27-28 settembre con l’obiettivo di distendere i rapporti fra le due potenze economiche, e che ora potrebbe essere annullato.

Con questo nuovo round di dazi su i prodotti cinesi, penalizzando componenti e semilavorati importantissimi per le aziende Usa, oltre a prodotti di larghissimo consumo come buste della spesa e casse di legno, in Usa si avvicinano sempre più a incidere nelle abitudini degli utenti finali; mentre le prime applicazioni, riguardando acciaio e alluminio, si riferivano per lo più a segmenti industriali e a prodotti per ora ancora impercettibili per le economie private dei cittadini Usa, adesso il cerchio si stringe sempre più fino a intaccare la produzione americana di hi-tech.

Trump ha difeso la sua mossa, nonostante le crescenti critiche dei repubblicani e il potenziale danno politico che potrebbe scaturire da questa decisione presa a poche settimane dell’elezione di midterm che si terrà a inizio novembre.

Neanche i gruppi industriali hanno preso bene l’annuncio, il presidente e amministratore delegato della National Association of Manufacturers (Nam), Jay Timmons, ha affermato che l’imposizione delle tariffe rischia di annullare i risultati ottenuti dai produttori nell’ultimo anno a causa delle riforme fiscali e normative.

«Ogni giorno che passa senza progressi su un accordo commerciale bilaterale basato sulle regole con la Cina – ha detto – cresce il pericolo per i produttori e gli operai della manifattura, di farsi male. Nessuno vince in una guerra commerciale».