50 milioni di euro ce li aveva messi tempo addietro l’Unione europea; 10 milioni a testa toccano, non senza qualche mal di pancia, ai paesi africani direttamente interessati; e da ieri, ancorché insperati, ci sono anche 60 milioni di dollari in arrivo dagli Stati uniti.

Se il problema del G5 Sahel erano i soldi, qualcosa sembra muoversi. La forza militare “ispirata” da Parigi e composta dagli eserciti di Mali, Niger, Ciad, Mauritania e Burkina Faso per andare a integrarsi con i 3 mila soldati francesi dell’operazione Barkhane e con le attività di UsAfricom in Africa occidentale, potrebbe presto andare a regime.

Coerentemente con la sua incoerenza, l’amministrazione Trump che fin qui si era detta contraria a eserciti multinazionali finanziati dalle nazioni unite, ha infine ceduto al pressing costante della Francia e a quello più discreto del segretario generale dell’Onu Antonio Gutierres.

Resta da capire cosa ne dirà il Congresso Usa, ma l’annuncio di ieri del segretario di Stato Rex Tillerson alla Francia deve essere suonato come il miglior viatico in vista della riunione del Consiglio di sicurezza, in programma ieri sera proprio per sciogliere il nodo dei finanziamenti da destinare a questo esercito transanazionale che dovrà contrastare, anzi sradicare il terrorismo jihadista nella regione saheliana, mettendo un freno anche al traffico illegale di esseri umani e di armi (queste le finalità ufficiali). L’Italia, particolarmente interessata a quest’ultimo aspetto, non ha fatto mancare il suo sostegno a Macron.

Quanto ai «cinque», hanno già dimostrato alla ex potenza coloniale tutta la loro buona volontà mettendo in campo un battaglione ciascuno, ma da mesi ripetono che il contingente di 10 mila uomini ipotizzati in principio costituirebbe un costo insostenibile per le loro magre economie. La “bolletta” annua del G5 Sahel ammonta infatti a 423 milioni.