Il trionfo del 4 luglio voluto da Trump sulla spianata capitolina di Washington, si è risolto alla fine in una agiografica recitazione di vittorie militari americane inframezzato da fly over di velivoli. Un incrocio fra cerimonia di consegna diplomi ai cadetti di West Point e un asta di armamenti bellici con Trump banditore.

Utile soprattutto – come inevitabilmente confermato l’indomani –  alla produzione di uno spot elettorale atto a posizionare un renitente alla leva recidivo come virile Commander in Chief, acclamato dai patrioti (ancora una volta troppo numerosi).

Una narrazione semplificata, spogliata di ogni sfumatura e complessità, in cui la realtà è stata, al solito, sostituita con una trama da Marvel e abbondanti effetti speciali. Una abbondante conferma della valutazione del presidente trasmessa al Foreign Office di Londra dall’ambasciatore inglese negli Stati uniti: “Stupefacentemente ignorante e vanesio”.

La vicenda, con annessa polemica sulla militarizzazione della festa nazionale, ha soprattutto ancora una volta restituito l’immagine di un paese spaccato e psicologicamente stremato, logoro dalla diatriba costante che emana dal proprio presidente, una nazione che alla vigilia di una stagione elettorale che si preannuncia feroce, non sembra in condizione di poter sopravvivere indenne altri eventuali quattro anni di regime trumpista.

La prossima campagna sarà il banco di prova, è ormai sempre più evidente, per constatare se esiste un’ultima uscita per la democrazia o se, come sta avvenendo in molti paesi, sia destinata a imboccare a tutta velocità il binario morto del nazional-populismo e della ignorantocrazia.

I giorni immediatamente precedenti al siparietto parodistico coreografato da Trump a Washington hanno visto un’escalation di fragorose spallate all’ordinamento politico e giuridico americano da parte di un Trump, ormai a due terzi del mandato, sempre più spregiudicato ed eversivo.

Intanto il G20 in cui Trump, allineandosi al Putin pensiero, ha disinvoltamente ripudiato (pur nel modo semianalfabeta che gli è consueto) la tradizione liberale su cui poggiano le democrazie occidentali. Una dichiarazione fatta dal presidente che ama “scherzare” sull’ipotesi di eliminare il limite di due mandati a proprio beneficio, e che ha nuovamente elevato la figlia Ivanka a dignitaria dinastica non eletta (prima di scambiare battute con Putin su come “sbarazzarsi” di giornalisti scomodi ed intrattenersi altrettanto giovialmente con Mohammad Bin Salman, altro esperto in materia).

Il summit ha visto anche l’ennesimo voltafaccia nella guerra commerciale con la Cina con l’armistizio estemporaneo con Xi, seguito alla crisi prefabbricata e l’inevitabile annuncio di vittoria.

La photo-op nella DMZ coreana si è poi sommata alle precedenti cartoline con Kim Jong Un, a fronte di una completa assenza di risultati concreti; ultimi esempi di una politica estera americana che, da Pyonyang a Tehran, si sviluppa ormai  senza apparente disegno diverso daii coup de théatre a consumo interno. Ordinaria amministrazione per la presidenza Trump che viaggia ormai sempre più sul filo della crisi costituzionale.

Le escandescenze del presidente, squarci su un inquietante squilibrio psichico, continuano altresì a sottolineare come il vantato impianto politico americano non abbia trovato gli anticorpi per far fronte a un capo dell’esecutivo imbizzarrito ma che dispone comunque del potere smisurato di cui l’investe la costituzione presidenziale, specie a fronte della connivenza di un senato repubblicano e di una corte suprema preventivamente – e proditoriamente –  blindata da una maggioranza reazionaria.

Il partito repubblicano, che nel 2016 ha sabotato Obama sulla nomina di un giudice cui aveva diritto, ha vinto il voto popolare in una sola delle cinque elezioni presidenziali tenute questo secolo, ma presidenti repubblicani si sono insediati 3 volte su 5 e hanno designato 15 delle ultime 19 toghe.

A sottolineare l’importanza del ramo giudiziario costituzionale sono state la scorsa settimana due decisioni chiave proprio della corte suprema.

Prima, la sentenza che ha in buona sostanza sancito la legalità del gerrymandering, ovvero la determinazione artificiale dei distretti elettorali che in regime di maggioritario secco permette la manipolazione dei risultati elettorali a favore della minoranza.

La strategia comporta il disegno dei confini dei collegi elettorali locali distribuendo oculatamente le popolazioni al loro interno. Col sistema maggioritario – in cui le maggioranze contano all’interno dei singoli collegi invece che sul totale dello stato – è possibile spalmare quelle maggioranze in modo vantaggioso. In uno stato con nove distretti in cui i democratici sono il 55% degli elettori complessivi, i repubblicani potrebbero comunque vincere più seggi in congresso se i loro elettori saranno strategicamente distribuiti in modo da prevalere in 6 distretti.

È una partita che i repubblicani  – il partito che ha eletto l’ultimo presidente grazie ad 80.000 preferenze strategicamente spalmate in tre stati minori – hanno espertamente giocato e di cui in gran parte controllano le regole.

Per fare soltanto un esempio, nel 2012 il Wisconsin ha votato democratico al 51% ma i Dem hanno vinto solo 39 dei 99 seggi in palio. Nel 2000 George Bush ha preso 2 milioni di voti in meno di Al Gore; Trump quasi tre milioni in meno di Hillary Clinton.

In termini assoluti il Gop è minoritario a livello nazionale, e nell’algoritmo demografico le fortune del partito conservatore sono destinate a declinare ulteriormente col soprasso delle minoranze etniche sui “core voters” di bianchi che sono lo zoccolo duro repubblicano.

Sarebbe già avvenuto se non fosse per le acrobazie amministrative impiegate per ottenere una ripartizione favorevole dei collegi, un’operazione controllata dalle giurisdizioni locali dei singoli stati. Dove il GOP, pur rappresentando meno cittadini in assoluto, controlla ben 34 governi statali.

Da molto tempo i democratici vanno cercando una riforma a quella che il New Yorker ha definito “chiave di volta della inibizione istituzionale dell’elettorato”.

Quando l’annoso caso giuridico è infine giunto alla corte suprema il mese scorso, grazie alla maggioranza conservatrice del tribunale l’istanza è stata respinta, consacrando, come ha scritto l’Atlantic, il “difetto fondamentale della nostra democrazia costituzionale”.

Come il sistema che assegna ad ogni stato due senatori a Washington a prescindere dal numero di abitanti,  il gerrymandering ha l’effetto di neutralizzare  le super maggioranze democratiche e progressiste delle grandi città spostando artificialmente il baricentro politico verso gli stati rurali e scarsamente popolati dell’hinterland conservatore.

La strategia è stata escogitata da Thomas Hofeller, stratega repubblicano specializzato in dinamiche elettorali, per controbilanciare la tendenza demografica sfavorevole ai conservatori.

D’altra parte la manipolazione della rappresentatività è tradizione centenaria con un know-how affinato negli stati segregazionisti del sud che per decenni mantennero con ogni mezzo lontane dalle urne le maggioranze afro-americane per perpetuare il potere dei bianchi.

Oltre all’ostruzione elettorale, Trump, col non (tanto tacito) sostegno dei repubblicani, mette in campo una strategia più apertamene eugenetica: il blocco dell’immigrazione e la pulizia etnica.

In quest’ottica sono state promulgate le politiche di “tolleranza zero” che hanno prodotto gulag in cui la crudeltà viene applicata – in piena sintonia coi sovranisti europei – come sistema di dissuasione.

In questo contesto si inserisce anche l’altra iniziativa di Trump che ha dominato la cronaca in questi giorni, coinvolgendo nuovamente la corte suprema: l’inserimento nel censimento dell’anno prossimo della certificazione della cittadinanza.

Nel sistema americano, dove il censimento richiesto ogni dieci anni dalla costituzione ha lo scopo esplicito di “contare tutte le persone che risiedono sul territorio nazionale”, non ha precedenti la domanda sulla cittadinanza che Trump vorrebbe aggiungere e che inietta una dimensione securitaria in quello che dovrebbe esplicitamente essere un sondaggio apolitico.

Da un lato si tratta di un plateale gesto sovranista da dare in pasto alla base, dall’altra avrebbe l’effetto calcolato di inibire la conta di una popolazione ispanica già panicata da retate e deportazioni.

Dal rilevamento del censimento dipendono inoltre sia la ripartizione dei fondi federali destinati agli stati che l’assegnazione dei numeri di seggi congressuali agli stessi.

Dato che il grosso della popolazione non in regola (si stima attorno ai 15 milioni) risiede in roccaforti democratiche come California, New York e Illinois (unica eccezione il Texas) queste potrebbero perdere miliardi in fondi federali e, ancor più criticamente, rappresentanti in parlamento.

Per Trump è l’uovo di Colombo e un altro modo per tenere al potere la minoranza premendo sullo scricchiolante impianto democratico.

I (non tanto) piccoli passi necessari per normalizzare il modello di dittatura “soft” ispirato alle democrazie “imperiali” già istaurate in Russia, Cina, Turchia ed altrove.

Nelle prossime elezioni è semplicemente l’inesorabile completamento di questo progetto la posta in gioco – per gli Usa e per l’occidente.