Donald Trump ha parlato da poco, proprio mentre scriviamo, troppo tardi per poterne fare la cronaca in questa edizione del giornale.

IL MAGGIORE DISCORSO dal suo insediamento un mese e mezzo fa è stato di fatto uno «State of the Union» alle camera congiunte del parlamento e quindi al paese che si sta ormai abituando alle variazioni sugli sgangherati, estemporanei, comizi elettorali che costituiscono le sue orazioni. Questa in particolare, nell’aula del congresso, ha avuto come interlocutore principale i parlamentari repubblicani, membri del Gop che in assenza di qualunque opposizione funzionale del partito democratico, è sostanzialmente il partito unico americano, e unico contrappeso al leader nazionalpopulista.

È a loro quindi che Trump ha rivolto l’appello per continuare a sostenere il suo progetto per una «grande America». Un appello consuetamente condito di autocongratulazione per la «macchina ben oliata» della propria amministrazione ed accuse alla élites ed alla stampa antipatriottica che non vuole farsi una ragione della sua vittoria.

ANCHE PRIMA del discorso Trump ne aveva anticipato il tono con le ultime accuse formulate per la prima volta apertamente a Barack Obama: di essere l’eminenza grigia dietro all’opposizione, in particolare quella dei «contestatori pagati» e delle fonti anonime che forniscono alla stampa informazioni riservate. Una ennesima «bomba» lanciata, senza addurre prova qualsivoglia: un nuovo elemento alla narrazione paranoica con cui il trumpismo si autogiustifica.

LA DECOSTRUZIONE del linguaggio politico è d’altronde nocciolo fondamentale di questo postmoderno neofascismo americano imperniato su slogan surreali ed una continua, astiosa polemica coi fatti. Un congegno che si fonda sulla caratterizzazione dei media come quarto potere nemico giurato del tribuno popolare, veri e propri «nemici del popolo». L’obiettivo è dunque la neutralizzazione di quel «partito d’opposizione» (definizione di Steve Bannon) ottenuta derubricando i fatti al rango di «opinioni».

NELL’ORAZIONE TRUMPISTA quindi una «marea di impieghi» sta già facendo ritorno in America grazie alle pressioni contro la delocalizzazione esercitate sull’industria. I «criminali» immigrati sono già in procinto di essere rimpatriati, il paese è messo in sicurezza ed il deficit è diminuito nel primo mese rispetto a quello di Obama.

L’APPARATO ANTI IMMIGRAZIONE – muraglia messicana e 15.000 nuovi agenti di frontiera, lo smantellamento della sanità pubblico-privata ed ora l’annuncio del mastodontico aumento del budget militare promettono invero una colossale esplosione del bilancio. I $54 miliardi supplementari destinati alle forze armate costituiscono un aumento del 10% al bilancio militare più colossale del mondo, cui ieri ne sono stati aggiunti altri 30. Ce n’è abbastanza per mandare in tilt, oltre agli equilibri internazionali, quelli interni del bilancio ed è un rospo notevole che dovrebbero ingoiare i repubblicani, presunti paladini del governo minimo.

PER FINANZIARE L’ESERCITO imperiale le vittime designate sarebbero l’Epa, organo di protezione ambientale già destinato alla rottamazione. Altri «risparmi» dovrebbero provenire dalla decurtazione del bilancio del dipartimento stato (territorio comunque nemico coi suoi diplomatici di lungo corso) e in particolare dai suoi $22 miliardi di assistenza internazionale. Un epocale trasferimento dalla cooperazione alle bombe che ha già fatto schizzare in borsa i titoli dei grandi fornitori di armi. Si profila la collisione della retorica populista con le sue concrete conseguenze. Mentre il partito democratico conferma la profonda crisi con l’elezione di un nuovo segretario «clintoniano» contro la volontà della corrente «sanderista», le sorti dell’America dipendono dal patto faustiano stretto dai repubblicani. Un bieco calcolo che gli ha consegnato il potere al costo di una presidenza tossica senza precedenti.