Non le armi atomiche nordcoreane, ma il nucleare iraniano è il nocciolo duro del discorso di Donald Trump alle Nazioni Unite. I titoli «a caldo» dei giornali online erano concentrati ieri sulle minacce roboanti del presidente statunitense contro il regime di Pyongyang, quando ha tuonato che «gli Stati Uniti hanno una grande forza e una grande pazienza, ma se saremo costretti a difenderci o a difendere i nostri alleati, non avremo altra scelta che distruggere completamente la corea del Nord».

Non è da prendere sottogamba l’escalation della guerra di parole tra Trump e colui che egli provoca definendolo The Rocket Man. Non si capisce se lo stuzzichi di proposito, per innervosirlo e costringerlo a fare la mossa sbagliata avvantaggiando l’America.

Oppure se pensi di vivere in un film in cui fa la parte del pistolero spaccone che accarezza nervosamente e irresponsabilmente il revolver.

Nell’immediato non si vede come la diplomazia e il militare americani siano in grado di mettere nell’angolo Kim Jong-un. E questo mix di avventurosa libido loquendi di Trump e di assenza di piani reali e fattibili per disinnescare la tensione con la Corea del nord rende effettivamente molto pericolosa la situazione internazionale, tanto da far dire al pacioso Antonio Guterres che «la minaccia del nucleare non è mai stata così alta dalla Guerra Fredda».

Durerà per chissà quanto tempo ancora l’allarme internazionale sul ping pong americano-coreano, ma intanto, poiché Trump non ha in mente un progetto di nuovo ordine internazionale – ha ribadito anche ieri che lui è il presidente dell’America innanzitutto – si dà da fare per distruggere quel tanto che Barack Obama è riuscito a costruire nei suoi otto anni di presidenza. Con conseguenze potenzialmente non meno gravi di quelle presentate nell’immediato dalla sfida con la Corea del nord.

Lo smantellamento dell’edificio obamiano – politica interna ed estera – è l’unica linea riconoscibile di questo presidente. E così l’accordo sul nucleare iraniano, tanto faticosamente raggiunto dalla diplomazia guidata da John Kerry, di conserva con Russia, Cina ed europei, diventa l’obiettivo vero, prioritario degli attuali propositi di Trump.

Ed è per questo che, se la Corea del nord può apparire il tema nevralgico del discorso di ieri al palazzo di Vetro, è l’Iran deal la questione da osservare con la massima attenzione.
Trump l’ha definito «uno dei peggiori accordi, dei più vantaggiosi per una delle due parti» firmato dagli Usa, fonte «d’imbarazzo», «un disastro» da cui «non possiamo considerarci legati». Un accordo che è pronto a stracciare. Con l’approvazione entusiastica del solo Benjamin Netanyahu, che ha trovato il discorso del presidente repubblicano «il più coraggioso e acuto che abbia mai ascoltato in oltre trent’anni di frequentazione delle Nazioni Unite».

Ha alzato il tono della voce, quando ha affermato che Teheran potrebbe essere presto considerato inadempiente rispetto alle condizioni poste dall’accordo, con il conseguente azzeramento dell’accordo stesso da parte americana. Inadempienza totalmente smentita dal presidente iraniano Hassan Rouhani, ma, soprattutto, dal segretario di stato Rex Tillerson. Che in un’intervista ha specificato che l’eventuale inadempienza riguarda non il merito ma il preambolo dell’intesa, violato da Teheran con le sue attività in Yemen e Siria e con gli aiuti a Hezbollah. Questioni rilevanti, ma laterali. Questioni politiche su cui si può discutere. Tillerson, questo ha voluto dire. E infatti, in margine all’assemblea dell’Onu, ha discusso con il suo omologo russo Sergei Lavrov dei dossier più caldi, in primis quello siriano.

L’ex numero uno di Exxon Mobil incarna lo spirito affaristico, in tutti i sensi, e quindi pragmatico dell’amministrazione Trump. Ma quanto conta? Ed è vero che sarebbe in procinto di lasciare l’incarico? Domande poste dal protagonismo crescente dell’ambasciatrice alle Nazioni Unite Nikki Haley, politica di professione, diversamente dal «tecnico» Tillerson, e la cui ascesa è sotto intensa osservazione da parte dei media mentre cresce l’incomprensione tra Rex e il suo capo. Non è un caso se nel palazzo di Vetro «di Haley» si siano ascoltate le parole più minacciose finora pronunciate da Trump nelle diverse aree di prioritario interesse per gli Stati Uniti, con l’evidente assenza di riferimenti alla Russia.

Il giorno dopo la 72ma assemblea dell’Onu non si può dire dunque che il mondo abbia maggiori elementi per capire in che direzione va la politica internazionale di questa amministrazione, se non la sensazione d’un volume sempre più alto e provocatorio delle minacce mentre l’apparato, che dovrebbe far seguire i fatti, è impreparato e diviso, secondo il solito schema falchi-colombe. Con la differenza che, con Trump, dovessero prevalere i falchi, usciremmo dal regno dell’escalation verbale per entrare direttamente nel clima di guerra nucleare evocato dal segretario dell’Onu.