L’Egitto «partner strategico», «pilastro della stabilità in Medio Oriente», al-Sisi «grande presidente». Tra sorrisi, fotografie e strette di mano, con queste parole Donald Trump ha accolto il generale egiziano, volato a Washington martedì. Nella visita di tre giorni i due hanno discusso di cooperazione in campo economico e militare e di contrasto al terrorismo.

Ma a ben guardare sono fattori interni che in questa fase spingono al-Sisi a cercare il sostegno dell’alleato americano. La sua riforma costituzionale sarà sottoposta nelle prossime settimane a un referendum popolare e il presidente, pur avendo annichilito qualsiasi forma di opposizione, fatica a mettere a tacere del tutto il dissenso. «Sta facendo un gran bel lavoro», ha risposto Trump ai giornalisti che gli chiedevano di esprimersi sulla riforma.

Gli emendamenti estenderebbero il potere del presidente sulla magistratura, accrescerebbero l’autorità dei militari in politica e permetterebbero ad al-Sisi di restare in carica fino al 2034. I malumori serpeggiano persino nel blindatissimo parlamento pro-presidente e tra una magistratura già in gran parte corrotta e schierata sulla linea liberticida del regime.

Amnesty ha denunciato in questi giorni una grave escalation di arresti, diffamazioni e attacchi informatici verso chi osa criticare la riforma. «Mostrare di avere il supporto entusiasta di Trump aiuterà al-Sisi a costringere ogni potenziale oppositore, nell’esercito o altrove, ad allinearsi», ha scritto Michele Dunne, studiosa del Carnegie Endowment for International Peace.

Stavolta però le voci libere della società civile egiziana sono riuscite a farsi sentire forte e chiaro anche a Washington. Proprio mentre Trump accoglieva calorosamente al-Sisi alla Casa bianca, al Campidoglio 12 organizzazioni per i diritti umani, insieme a sei membri del Congresso, hanno tenuto un evento pubblico che ha denunciato la stretta di al-Sisi e le violazioni nel paese.

Ed è stata diffusa una lettera indirizzata al segretario di Stato Pompeo e firmata da 17 senatori di entrambi gli schieramenti, che esprime «seria preoccupazione» per la riforma costituzionale in corso e «l’erosione dei diritti umani e politici».

A giocare un ruolo decisivo è stato il lungo lavoro di advocacy della diaspora egiziana (molto numerosa negli Usa), che comincia a strutturarsi in nuove organizzazioni e coalizioni di attivisti, accademici e difensori dei diritti umani. Un risultato importante che testimonia un nuovo modo di fare opposizione, in stretta connessione con chi lotta dall’interno del paese.