Con la «madre di tutte le bombe» Trump inaugura in Afghanistan la guerra «subnucleare» e dopo la scarica di Cruise conferma l’escalation di una amministrazione sanguinaria. Missili e maxibombe fanno coup de théâtre, ma quelle “normali” non sono da meno.

Portano infatti la firma di Donald Trump le stragi alla Moschea di Al Jinah (49 morti civili), il bombardamento di Mosul del 17 marzo (200 civili uccisi) e quello della scuola a Mansoura (30 vittime) oltre al fuoco amico che l’altro ieri a Taqba ha ucciso 18 combattenti alleati.

In questo bollettino è racchiusa la spietatezza di questa America nuovamente arcigna. Come lo è nella cronaca quotidiana che si riempie di retate nei barrios i pestaggi a sfondo razziale, di passeggeri trascinati a forza dall’aereo causa overbooking.

Sì, anche solo in quel video virale dell’uomo insanguinato trascinato dalle guardie fra le urla, sue e dei passeggeri inorriditi, c’è tutta la nuova crudeltà che serpeggia assai più tangibile da un paio di mesi nella società americana, abilitata da un presidente che autorizza senza remore la violenza congenita che segna così profondamente la storia del paese. Quella dell’”ordine” imposto col sopruso e la forza.
Nato dal fiume sotterraneo della rabbia cieca, il trumpismo ha inevitabilmente portato qui: a due mesi e mezzo dall’insediamento il presidente americano ha lanciato una bordata di missili contro un paese «canaglia» mentre offriva torta al cioccolato al grande rivale orientale nella sala alabastrata della Versailles della Florida. Il segretario di stato intima alla Russia di allinearsi con l’occidente mentre la settima flotta naviga in acque che lambiscono la terza Guerra mondiale al largo delle Coree.

I missili Cruise sono stati per Trump il battesimo d’entrata nella confraternita guerrafondaia che comprende i suoi predecessori negli ultimi 100 anni. «Gli Americani rispondono bene alla violenza», ha propriamente analizzato un sondaggista spiegando il prevedibile rialzo delle quotazioni di The Donald all’indomani del raid dei Tomahawk. E mentre gli analisti di mezzo mondo tentano di dare un senso geopolitico alle mosse imperscrutabili del presidente che potrebbe rivelarsi più guerrafondaio di tutti, Allan Nairn sottolinea giustamente come per il re della superpotenza nutrita di guerra – e per molti suoi sudditi – la violenza sia semplicemente esilarante. Un teorema shakespeariano che si adatta particolarmente bene al narcisismo e alla megalomania del sovrano folle che siede sul trono americano.

Un re Giorgio/Ubu che supplisce all’incompetenza con la boria e l’aggressività di una dialettica propositamente povera, appiattita sulla narrazione di un America morale e potente. C’è un nesso diretto fra la retorica tronfia di Trump e le bombe che hanno preso a piovere ancor più nel mondo. La cronaca di questi giorni è frutto dei mesi in cui Trump ha promesso di «annientare l’Isis a forza di bombe».

E allo stesso modo c’è un nesso diretto fra la retorica trumpista e la violenza a fior di pelle, endemica e insidiosa, quella della restaurazione del potere delle corporation, l’abrogazione dell’ambientalismo e dei diritti di donne e minoranze, quella della Corte suprema strappata con la prepotenza a Obama e ora blindata dalla destra retrograda. Il potere della retorica, del linguaggio – degli insulti twittati dal presidente come dalle bombe sganciate dal suo esercito.

La brutalità della licenza implicita data alle polizie dall’incitamento di Jeff Sessions, attorney general razzista vecchio stile che dal confine messicano intima agli immigrati: «State alla larga o vi cadremo addosso come una tonnellata di mattoni». La sua guerra federale contro minoranze etniche e clandestini è legata alla naturalezza con cui un passeggero asiatico viene pestato dagli agenti su un aereo della United Airlines.

È un’America  che torna a sistemi collaudati che conosce intimamente e fanno parte di ogni tappa della sua storia. Gli istinti peggiori cioè incitati ed autorizzati oggi dalla retorica ufficiale che dà voce al rigurgito catartico che alimenta il trumpismo.

L’analisi che sostiene che Trump in fondo non è peggio di un Obama che ha deportato e bombardato, anche lui sedotto dalla violenta tradizione nazionale, a questo punto è ingenua. Non tiene conto dell’effetto prorompente del linguaggio che articola la filosofia del sopruso. Non a caso la battaglia che unisce le destre è quella contro l’odiata «correttezza politica» perché le parole – perfino quelle ipocrite – spesso sono l’ultima barriera alla barbarie. Quelle di Trump invece sono benzina sul fuoco. Sotto spoglie di liberazione dal politically correct hanno precise, tragiche conseguenze sui civili del Medio Oriente come sui Sioux del Dakota.

Le parole pesano come macigni. La dialettica ha un prezzo: il sangue è destinato a scorrere, quello metaforico e quello vero. E siamo appena all’inizio, e molto altro ne scorrerà. Netanyahu gongola per la nuova patente di occupatore, Al Sisi riceve gli onori di stato, i reali sauditi discorrono di raid al telefono con Trump.
Il militarismo – nazionale e internazionale – è la punta di lancia della restaurazione reazionaria in atto. Nel progetto della grande coalizione delle destre c’è in defintiva la presa di potere del capitale senza più vincoli – il massiccio trasferimento di potere dalla sfera pubblica al settore privato, imposto con le buone o con le cattive. Pensare che possa essere indolore è una vana illusione.

Trump lo ha promesso chiaramente. L’America torna alla forza bruta e alla assuefazione di sempre: la violenza catartica e liberatoria – nei ghetti, nei barrios, negli aerei e nelle bombe sganciate sui deboli del mondo.