La sede della convention repubblicana è il palazzetto dello sport diventato tempio sacro a Cleveland dopo la vittoria del campionato Nba da parte di LeBron James e i suoi Cavaliers il mese scorso. Con squisita coerenza, l’arena è intitolata allo sponsor unico, Quicken Loans, la maggiore società privata di prestiti, mutui online e vitalizi ipotecari, che non poteva rappresentare meglio il terziario collegato alla nuova povertà che in qualche modo ha prodotto il fenomeno Trump. In questo palasport convertito in stadio-TV sono infine cominciati i lavori del congresso che incoronerà il magnate a candidato presidenziale.

La scenografia è impressionate e la regia come di consueto precisa al secondo, tuttavia la convention è cominciata con una contestazione. Una manciata di delegazioni hanno chiesto una revisione del regolamento per permettere di «votare secondo coscienza». Avrebbe permesso ai delegati presenti qui di votare in extremis per un ipotetico candidato anti Trump. Per farlo era necessaria una petizione firmata da delegazioni di sette stati: ne sono state presentate nove. Il segretario ha dapprima rifiutato di mettere il voto all’ordine del giorno suscitando un tumulto in aula, con cori anti-Trump. La seduta è stata sospesa e quando i lavori sono ripresi, tre degli stati avevano «ritirato» la petizione dopo le «vive sollecitazioni» dei trumpisti. Numerosi delegati hanno lasciato l’aula per protesta. È stata una sconfitta definitiva dei «never Trump» ma anche una dimostrazione assai plateale dei malumori residui di chi all’interno del partito non riesce a digerire «l’hostile takeover» di Trump. E nell’attenta coreografia dell’investitura si è trattato di un fuori programma imbarazzante.

Archiviata la pratica, in serata sono cominciati i discorsi che non hanno lasciato invece dubbi su chi controlla il «nuovo» Gop. Per scaldare il pubblico è stato scelto Willie Robertson, star di Duck Dynasty, il reality su un clan di cacciatori delle paludi del Louisiana diventati cult e «meme» conservatore. «Siamo gente semplice che ama pescare, cacciare e pregare», ha esordito il barbuto idolo redneck, i capelli fasciati da un bandana a stelle e strisce che ha poi deriso le élite istruite per la congenita incapacità di comprendere l’America «vera» e profonda. Un intervento che ha espresso un paio di concetti fondamentali del trumpismo: il populismo anti intellettuale e un elogio della semplicità che confina con l’ignoranza. È stato anche solo il primo degli interventi affidati a stelle minori del firmamento pop-culturale. Dopo Roberston ha preso la parola Scott Baio (alias Chachi di Happy Days) nonché rappresentante di un nutrito contingente italoamericano.                          

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L’intervento forse più surreale è stato quello di Antonio Sabato Jr. che ha apostrofato la platea con un improbabile “Vai Italia!” prima di raccontare la sua storia di immigrato “legale”: arrivo in Usa tredicenne proveniente da Roma, seguito da una gavetta temprante fatta di ruoli comprimari su serie come Beautiful e Melrose Place, premiata infine con la cittadinanza di un grande paese baluardo contro il socialismo mondiale. In una successiva intervista alla Abc Sabato ha dato voce al complottismo strisciante delle frange repubblicane affermando di «sapere» che Obama è un «musulmano alleato dei terroristi».
L’ultimo italoamericano dell serata è stato l’ex procuratore Rudy Giuliani, concittadino di Trump e mastino guerrafondaio del partito. L’ex sindaco di New York ha infiammato la platea sparando a zero sui nemici dell’America ovunque si annidino, lanciando dal podio un ultimatum ai terroristi islamici: “sapete chi siete e vi verremo a stanare.”

La narrazione del conflitto e della contrapposizione, intrecciata al ludibrio per l’inefficacia di Obama sono stati il tema ricorrente di un programma che ha portato sul palco reduci e militari e una processione di vittime dei «nemici della nazione»: madri di soldati caduti, di ostaggi e diplomatici e almeno un paio di deceduti in a incidenti automobilistici provocati da immigrati clandestini. Genitori , commilitoni e nonne in lacrime hanno denunciato la colpevole connivenza di Obama e specialmente di Hillary Clinton nella morte dei loro cari.
Un catalogo assemblato per confermare i peggiori sospetti di un popolo repubblicano chiaramente affetto da un mastodontico complesso di persecuzione.

Cosí l’uccisione dell’ambasciatore americano e tre agenti della Cia a Benghasi è stata accostata a quelle recenti dei poliziotti di Dallas e Baton Rouge, a riprova di una «shining city» reaganiana assediata dalle forze del male e tradita dall’ignavia dei liberal. E al di la di ogni ideologia aspirazionale, il collante in questo sabba repubblicano è parso proprio l’odio pastoso e condiviso per Hillary Clinton, ripetutamente vituperata come nemica e traditrice e profetessa della definitiva perdizione. Come mai prima la convention ha cioè inscenato un parco a tema della paura pensato per spingere a novembre il maggior numero possibile di elettori in panico verso le urne. Una distopia repleta (stracolma) di armi e terrore e barbari ammassati sui confine ad alimentare una dissociazione quasi psicopatolgica; di quelle capaci di portare ad atti inconsulti. In questo caso la consegna della casa bianca a Donald Trump.

In mezzo a questa rappresentazione angosciante c’è stato posto anche per lui, deus ex machina pronto a sacrificarsi per la nazione. Contravvenendo al protocollo tradizionale che prevede l’intervento del candidato solo l’ultimo giorno, Trump si è materializzato sul palco, in silhouette controluce su sfondo blu mentre dagli speaker rimbombava We Are The Champions. Un apoteosi di kitsch trionfale per introdurre Melania. Alla moglie slovena toccava il compito di alleggerire un pò il programma grondante fiele con un ritratto «intimo» del marito come uomo e padre compassionevole. Vestita con un abito bianco da principessa o da Miss Usa (il concorso che il marito ha gestito per anni), la signora Trump ha spiegato di provenire da una «piccola nazione ex-comunista dell’Europa centrale» ed ha assolto la missione Salvo la scoperta quasi immediate che il discorso conteneva ampi stralci fotocopiati da quello di Michele Obama nel 2008. Una gaffe monumentale destinata rimanere negli annali delle convention e delle figuracce.
E le sparatorie, delle quali si è parlato ad una certa ora? Non erano vere nemmeno quelle.