Nelle scene iniziali di Tutto su mia madre, film di Pedro Almodóvar, la protagonista del dramma, Manuela, legge con sconcerto al figlio aspirante scrittore la prefazione di Musica per camaleonti. In quelle pagine, che secondo Manuela sembrano fatte apposta «per toglierti la voglia di scrivere», Truman Capote ripercorre l’andamento della propria carriera d’artista e si rappresenta come un folle giocatore d’azzardo, asservito fin dall’infanzia alla tirannia della letteratura, suo «nobile ma spietato padrone». Il dono creativo concesso da Dio al romanziere, precisa Capote, equivale a «una frusta», che serve soltanto «per autoflagellarsi».

Del tutto agli antipodi rispetto a un simile tormento è l’esuberante leggerezza che ci accoglie quando apriamo la corrispondenza di Truman Capote raccolta nel volume È durata poco la bellezza (a cura di Gerald Clarke, Garzanti, pp. 608, 28,00€). Una lettera, per Capote, è in grado di tramettere quella «gioia» che resta «per sempre». Chi la scrive deve sforzarsi di riuscire spiritoso, evocativo, «scintillante», e deve saper manifestare tutta la sua dolce e smisurata «affettuosità», senza permettersi di deprimere o seccare il destinatario con racconti troppo intricati o di eccessiva lunghezza.

Piuttosto che importunare gli altri con il «bailamme» delle questioni personali, la comunicazione epistolare può divertirsi a fare incetta di aneddoti e pettegolezzi mondani, simulando una telefonata o una chiacchierata «meravigliosamente» spassosa: «come se stessimo bevendo un drink insieme da qualche parte».

Tra sfondi e pettegolezzi
Spesso, quando Capote si trova in viaggio o «sull’altra sponda della civiltà» rispetto ai suoi corrispondenti newyorkesi, l’arrivo del postino e il pellegrinaggio verso l’ufficio postale costituiscono l’evento più atteso di una giornata altrimenti costretta all’isolamento. Anche per questo Capote non smette di chiedere notizie agli amici, né rispetta la consuetudine che imporrebbe di inviare messaggi «a turno». Ipersensibile, romantico e «molto intuitivo», Capote scrive solo quando ne ha «genuinamente voglia», per sondare l’umore degli interlocutori attraverso i «segnali luminosi» delle loro risposte, ma anche per rimanere «nel giro» e mantenere ben oliato il «meccanismo dell’amicizia», visto che una lettera rappresenta il più potente antidoto contro la noia, rovina delle relazioni di qualsiasi specie.

Nel «mio stile» epistolare – dichiara Capote nel 1949 ad Andrew Lyndon – ogni cosa «ha l’aspetto di un componimento in versi sciolti: molto sciolti». E tuttavia basta sfogliare qualche annata dell’epistolario per accorgersi che le lettere dello scrittore, nella loro zuccherosa esuberanza, seguono uno schema ricorrente. Utilizzando la stessa tecnica impiegata anche nei primi capitoli dei suoi romanzi, Capote si preoccupa di trascinare il lettore «in situazione»: ai pettegolezzi e ai consigli di natura privata, che tradiscono una sotterranea volontà di controllo sulla vita degli amici, il mittente fa seguire l’immancabile descrizione degli scenari, dell’ambiente e in particolare della residenza in cui si trova a soggiornare. Sono tutte dimore incantevoli, deliziose, di una «bellezza assoluta», ma per lo più remote e solitarie, «in cima a una montagna» dove non c’è nient’altro da fare se non leggere e scrivere, e dove il romanziere conduce un’esistenza «monastica», all’insegna del lavoro e dello stile «più squisito».

È qui, nella presunta quiete dell’esilio creativo, che a poco a poco cominciano ad insinuarsi le ansie legate alla scrittura. Capote non dimentica mai di puntualizzare caratteristiche e sviluppi dell’opera a cui si sta dedicando, ma allo stesso tempo delinea anche la parabola inesorabilmente discendente di ogni sua avventura artistica. Se in un primo momento si proclama tutto preso dall’originalità delle sue trovate, col trascorrere delle settimane si ritrova «impantanato» nelle difficoltà, sopraffatto dagli intoppi e dai ritardi sulla tabella di marcia, «prigioniero» di una ricerca stilistica che procede con fatica ed estenuante lentezza.

I problemi, in ogni caso, non sono da attribuire tanto alle capacità di progettazione, quanto alle ambizioni dello scrittore. Come fa notare quando riceve critiche e richieste di cambiamento per il finale dell’Arpa d’erba, Capote ha piena consapevolezza dei propri espedienti tecnici e sa come impiegarli per raggiungere l’obiettivo prestabilito.

Come un merletto
Le sue narrazioni, che sembrano ispirarsi al metodo suggerito da Edgar Allan Poe, sono costruite con maniacale attenzione alla struttura generale della storia, al suono delle singole frasi, e persino alla disposizione dei «due punti» e del «punto e virgola», capaci di sortire l’effetto programmato solo se restano dove lo scrittore li ha piazzati. E tuttavia, confida Capote a Robert Linscott fin dal 1947, «ogni parola mi costa sangue»: anche perché le scommesse narrative col tempo si fanno sempre più esorbitanti e il romanziere, nella sua perenne insoddisfazione, si riconosce obbligato a riscrivere ogni pagina per ottenere il massimo risultato dai propri mezzi espressivi. Le tensioni raggiungono la soglia del tracollo nervoso con A sangue freddo, il romanzo-verità che si propone di raccontare un’efferata strage avvenuta nel Kansas sfruttando le potenzialità artistiche del reportage. In questo caso Capote rinuncia del tutto ai propri diritti di invenzione: per ricostruire le diverse «scene» del massacro e accertarsi dei moventi del delitto, si vede costretto a effettuare sfibranti ricerche sul campo, a entrare in intimità con gli inquirenti e con i due assassini che nel frattempo sono stati catturati, e infine ad attendere l’esito della loro incerta vicenda giudiziaria.

La messa a punto del libro, simile a un «merletto finissimo», si trasforma ben presto in una gigantesca e malata ossessione, in una «tortura» da cui Capote riesce a liberarsi solo dopo sei anni di coinvolgimento emotivo, quando assiste all’impiccagione dei colpevoli. La «scena finale» della vicenda resta un’esperienza «terribile», destinata a cambiare il punto di vista dello scrittore «quasi su tutto», ma pur sempre necessaria per concludere il racconto e conferirgli una compiuta forma d’arte.

Nel romanzo – specifica Capote a Donald Cullivan nel 1960 – «io non figuro e, tecnicamente, non posso farlo». Le lettere, a questi patti, aprono uno spazio in cui l’io dell’artista, riutilizzando una strategia che risale a Flaubert, recupera la possibilità di figurare e di mettersi in mostra davanti ai suoi corrispondenti nelle vesti di asceta, martire dello stile. Anche Capote, come Flaubert, si serve della comunicazione epistolare non tanto per parlarci di sé, quanto per farsi ammirare mentre si autoflagella nella reclusione del suo splendido isolamento lavorativo. E poco importa se in più di un caso la conversazione viene troncata in fretta, quando il romanziere manifesta il suo bisogno di uscire di casa o di ricevere ospiti: «la mia vera vita – ripete Capote fin dal 1949 – sembra ruotare tutta intorno al libro».