Tempi, colori, ambientazione, uso delle voci e dello spazio dentro a un fotogramma, la texture dell’immagine di sapore chiaramente surrrealista: nel 1990, Twin Peaks bucava i palinsesti tv con una densità cinematografica e narrativa impensabile per il piccolo schermo. Oggi gli sbordamenti dal cinema nella televisione sono molto frequenti, ma già a partire dalla sigla stilizzatissima, sulle note di Far from any Road, del gruppo The Handsome Family, l’ultima serie di HBO, True Detective, arriva con un feeling da «prima volta» che fa pensare molto a quello della mitica soap di Mark Frost e David Lynch. Dai boschi del nordovest a una Louisiana piatta, desolata ed economicamente depressa, Matthew McConaughey e Woody Harrelson sono Rust Cohle e Martin Hart, due poliziotti ingarbugliati nell’inchiesta relativa all’omicidio di una ragazza di cui (non si sa ancora perché, siamo solo al quinto episodio) sono chiamati a rispondere quasi vent’ anni dopo. Giocata in un ipnotico andirivieni tra il 1995 e il 2012, la storia si muove fra il momento delle indagini, che i detective conducono a quattro mani, e il presente in cui – non più detective e non più in contatto tra di loro – i due ricordano quello che è successo, interrogati separatamente dalla polizia.
Come in Twin Peaks (e per certi versi The Killing), il cadavere di una ragazza è il punto di partenza della vicenda. Ma, diversamente da Laura Palmer, la Dora Kelly di True Detective (il cui corpo nudo, grottescamente legato ad un albero e decorato con misteriosi disegni e una corona di corna di cervo viene trovato all’inizio della prima puntata) è meno il fantasma della serie che un pretesto narrativo per entrare nelle psicologie di Hart e Cohle. Il primo nasconde dietro al tranquillo pragmatismo professionale e alla serena vita di famiglia, un’amante giovane e una confusione profonda. Il secondo, che vive in un appartamento bianchissimo, arredato di un unico materasso apppoggiato per terra, porta dentro di sé le cicatrici lasciate dalla morte della figlia, e da una durissima esperienza undercover per la narcotici dell’Alaska.
Hart è un tipo superficiale, affidabile, di poche parole. Cohle un verbosissimo filosofo scomodo, con lo sguardo paranoico e un istinto infallibile per il crimine. Harrelson e McConaughey li interpretano come due animali diversissimi tra loro, uniti in una strana danza comune che si articola, guardinga, nella coreografia dell’ inquadratura e nelle tortuosità dei rispettivi racconti. I movimenti appena più lenti del normale, l’accento leggermente più spinto, tutto accade in uno stato di generale iperrealtà. È una suspense delle immagini, non della storia.
La loro pista, costeggiata da laboratori di metanfetamina fatta in casa, biker suprematisti bianchi, e grossi cartelli sull’autostrada con le foto delle ragazzine rapite (il milieu ricorda gli ultimi due film Friedkin, Killer Joe e Bug, e quello di Ami Mann, Texas Killing Fields) punta vagamente a un serial killer. Ma Reggie Ledoux, l’ipotetico assassino di Dora, tatuato di simboli runici e numeri 6, viene ucciso a metà percorso – perché quel colpevole è solo un’espediente del labirinto su cui è costruita la serie.
Riferimenti sparsi qua e là a un misterioso Yellow King e a Carcosa, ci rimandano alla raccolta di racconti horror di Robert W. Chambers, The King in Yellow (1895), a HP Lovecraft e Ambrose Bierce. Infatti, episodio dopo episodio, il noir di True Detective si colora di horror – i racconti di Hart e Cohle (che nella sua versione 2012 sfogga lunghi baffi spioventi, una coda di capelli grigio topo e lo sguardo di chi ha visto l’inesprimibile) comiciano a non combaciare più con le immagini di quello che è veramente successo. Alla fine del quarto episodio, un movimento di macchina ininterotto per 12 minuti – che segue Cohle e un suo ostaggio biker pieno di droga fino al collo, di notte, in un covo di armatissisimi spacciatori afroemaricani è una discesa all’inferno, di cui i fan della serie (tra cui Barack Obama) parlano da settimane. Le criptiche massime che Cohle/McConaughey, invecchiato, snocciola ai due giovani poliziotti, davanti a una manciata di lattine di birra vuote da cui ricava, metodicamente, strane sculture, rimbalzano online come degli indovinelli.
A parte la qualità altissima, a cui d’altra parte HBO ci ha ormai abituati, True Detective (di cui Harrelson e McConaughey sono produttori esecutivi) è insolita anche nel contesto autoriale della tv contemporanea, perché un solo sceneggiatore e un solo regista sono responasbili di tutti e otto gli episodi che compongono la prima stagione. Nic Pizzolatto, che l’ha scritta, è un insegnante universitario e un romanziere, cresciuto in Louisiana. Per la tv finora aveve solo firmato un paio di episodi di The Killing. Cary Fukunaga, alla regia, è il filmmaker dietro a successi indie come Sin Nombre e Jane Eyre. La loro stretta collaborazione, e il fatto che nella progressione dei diversi episodi non intervengano altre voci, dà a True Detective l’omogeneità di un film. Diversamente da House Of Cards, che Netflix ti permette di divorare tutto in un colpo solo (come hanno fatto moltissimi americani il week end scorso, quando sono arrivati online i 14 episodi della seconda stagione), HBO ti fa centellinare un’ora di True Detective alla settimana. È quasi una tortura. Perché se c’è una serie che si presta al binge viewing è proprio questa.