Nella serata di lunedì 8 febbraio il Central Statistics Office del governo federale indiano ha pubblicato i dati di crescita dell’ultimo trimestre del 2015, che ha segnato un incremento del 7,3 per cento. In lieve ribasso, considerando i risultati del resto dell’anno, ma abbastanza per restituire un dato finale esaltante per il governo di Narendra Modi e gran parte di India Inc.: il Pil indiano nel 2015 è cresciuto complessivamente del 7,5 per cento. E per la stampa internazionale torna quel prurito ai polpastrelli, quel moto interiore incontenibile che si riflette nel titolone: «L’India cresce più della Cina!».

La tentazione, quando carta canta e la memoria è corta, è enorme, soprattutto quando la locomotiva cinese sta attraversando una crisi sistemica con la crescita ferma al 6,9 per cento – «Cina mai così lenta», si titola – in quella che Pechino descrive ottimisticamente come la «Nuova normalità» di transizione da «fabbrica del mondo» trainata dall’export a «economia matura» basata sui servizi: un quadro che vuole essere rassicurante dentro e fuori la Muraglia, ma che continua ad angosciare investitori cinesi e mercati internazionali, come dimostrano le montagne russe finanziarie dello scorso anno a Shanghai e Shenzhen.

In mezzo c’è l’India di Narendra Modi, al secondo anno di mandato, proiettata verso mete ambiziose di espansione esemplificate dal progetto «Make in India», il biglietto da visita di NaMo nel mondo: un’enorme campagna di marketing internazionale accoppiata a promesse di semplificazione burocratica e incentivi all’investimento per attrarre quegli agognati Foreign direct investments (Fdi) dei quali il subcontinente ha disperato bisogno, per ridurre l’abisso infrastrutturale che lo divide dal resto delle cosiddette «economie emergenti». E per attrarre investitori stranieri tanto fa l’ottimismo e il «packaging», come si dice: vendere una nazione giovane e dinamica che «già» cresce più della Cina è più facile che vendere un gigante dall’enorme potenziale, ma fermo a uno stadio di evoluzione infrastrutturale che lascia alquanto a desiderare (strade, centrali elettriche, fabbriche, competenze della manodopera).

Per questo i tecnici dell’Ufficio di statistica indiano il 30 gennaio del 2015 (settimo mese di mandato dell’Era Modi) hanno operato un «ritocco metodologico» destinato ad aumentare ottimismo e confusione dentro e fuori i confini: se fino a quel momento le variazioni del Pil si erano calcolate tenendo come base l’anno fiscale 2004-05 – quando l’India pre crack globale del 2008 cresceva eccome – dal 31 gennaio le variazioni sarebbero partite dall’anno fiscale 2011-12, in piena gestione fallimentare della crisi da parte del governo Manmohan Singh (Indian National Congress, Inc).
Allo scoccare della mezzanotte del 30 gennaio 2015, l’economia indiana sulla carta aveva guadagnato ben 2,2 punti percentuali di Pil, trasformando con un colpo di spugna la preoccupante crescita ferma al 4,7 per cento del 2013-14 nell’entusiasmante crescita al 6,9 per cento del medesimo 2013-14. Senza che sul campo, ovviamente, cambiasse una virgola. Per dirla con De Gregori: «Diminuzione dei cavalli, aumento dell’ottimismo».

La fantasia al potere nel calcolo statistico ha permesso un racconto algebricamente entusiastico della crescita indiana, ma il raffronto dell’incremento del Pil con altri indicatori economici sensibili sta generando non pochi grattacapi di coerenza scientifica agli analisti, che chiamati a commentare l’alba dell’avvenire indiano faticano a far quadrare il cerchio dell’economia reale del subcontinente.

Mentre il Pil galoppa, infatti, le esportazioni sono generalmente in calo rispetto al 2014, crollano verso i paesi Asean (-25 per cento all’aprile-novembre 2015 rispetto allo stesso periodo nel 2014) e verso Cina, Giappone e Corea del Sud (-20 per cento, media tra i tre). Stesso discorso per l’agricoltura (-25 per cento) e per l’export petrolifero, per la verità entrambi in parte azzoppati dal crollo del prezzo del greggio a livello globale. Cifre messe in fila in un editoriale allarmante – «Unprecedented Decline» – pubblicato lo scorso gennaio dall’autorevole Economic & Political Weekly, che denuncia l’incapacità del governo Modi di sostenere le esportazioni nazionali con politiche ad hoc promesse in campagna elettorale e ancora ferme nel pantano parlamentare di New Delhi.

Al netto della sindrome renziana dei «gufi» – che in Bengala e Orissa portano anche bene, parte dell’iconografia della dea della prosperità Lakshmi – l’economia indiana sta sì procedendo verso una crescita stabile, vantando un enorme margine di miglioramento tutto da svelare, ma considerando i giochi d’ombre della statistica e le variabili meno galvanizzanti dell’economia reale, la strada da fare è ancora molta. E non è una cattiva notizia.