Certo a volte è meglio qualcosa invece di niente ed è forse meglio tardi che mai. Comunque negli ultimi anni gli accordi che si fanno a Bruxelles, sia che riguardino l’intera Unione Europea o invece soltanto l’Eurozona, lasciano sempre la bocca amara per quello che si sarebbe potuto fare e non si è fatto o, al massimo, in misura molto ridotta. Non a caso Lorenzo Bini Smaghi ha subito scritto un articolo sul Financial Times per dire che l’accordo del 18 dicembre è una delusione, mentre, come al solito, a Bruxelles si parla di «accordo storico» e la stessa espressione ha usato il nostro soave ministro Saccomandi, che, a detta della stampa nostrana, avrebbe efficacemente contrastato la linea tedesca. Ma di accordo storico in accordo storico stiamo in effetti finendo, sia pure lentamente, in un burrone.

Non possiamo così, sulla conclusione delle trattative, che ribadire nella sostanza quello che scrivevamo già qualche giorno fa su questo stesso giornale, riferendo in più qualcuna delle novità principali, a nostro parere di non grande rilievo, sulle quali ci si è accordati nelle ultime ore.

Nella sostanza l’accordo mette a punto la seconda tappa di un processo che dovrebbe portare al varo dell’unione bancaria europea; le tre parti principali della costruzione sarebbero il controllo a livello comunitario delle banche, direttamente da parte della Bce, provvedimento già malamente varato, un meccanismo di risoluzione delle crisi, appena approvato, infine un sistema di garanzia comunitaria dei depositi dei clienti, di cui ancora non si parla.

A ognuna di queste tappe i buoni propositi di molti paesi si sono sempre infranti di fronte all’ostilità tedesca verso qualsiasi forma di mutualizzazione dei rischi e degli impegni e nella difesa a oltranza dei propri interessi di bottega. In queste ore si menano alte grida di gioia mal riposta perché la Germania ha fatto qualche concessione soltanto marginale rispetto a questo principio.

Dunque, a regime, cioè tra dieci anni, più i due necessari per varare il sistema (perché così tardivamente?), si sarà progressivamente costituito un fondo salva-banche unico, alimentato da prelievi sullo stesso sistema finanziario; tale fondo dovrebbe intervenire in caso di crisi di qualche istituto, per contribuire a risolvere la situazione senza che le difficoltà di qualche banca mettano a rischio le casse pubbliche dei vari paesi o altri istituti.

Il fondo, che all’inizio sarà formato da sottofondi nazionali, che poi confluiranno progressivamente in quello comune, alla fine del periodo indicato, cioè tra dodici anni, raggiungerà l’ammontare di 55 miliardi di euro.

Oltre però al fatto che siamo di fronte a una messa a regime tardiva, il fondo appare larghissimamente insufficiente rispetto alle necessità portate da qualche crisi importante. Abbiamo ricordato qualche giorno fa che, secondo Wolfang Munchau, sempre del Financial Times, le necessità di capitalizzazione delle banche europee ammonterebbero oggi a una cifra oscillante tra 1,0 e 2,6 trilioni di euro.

In ogni caso, per far fronte alle difficoltà che si dovessero presentare prima della messa a regime di tale fondo, in questi giorni ci si è messi d’accordo su di un meccanismo, piuttosto contorto e complicato, come succede spesso in questi casi; noi italiani siamo, come si sa, bravissimi a trovare delle vie d’uscita labirintiche, che fanno finta miracolosamente di accontentare tutti. In questo caso si sente in effetti, nella stesura dell’accordo, la mano di qualche nostro connazionale.

Dunque, nel caso che una banca vada in crisi, prima di tutto si assalteranno, giustamente, i capitali forniti dagli azionisti, successivamente, meno bene, quelli degli obbligazionisti e dei depositanti oltre i centomila euro, impiegando nel processo una qualche formula esoterica; in caso di ulteriori necessità, il principio di fondo è quello che a pagare devono essere le banche, ma, in caso di esigenze impellenti, si è stabilito che intervengano con dei prestiti gli stati e, in qualche modo, anche altri paesi, nonché il vecchio fondo salva-stati, che giace da tempo sepolto da qualche parte perché, come al solito, la Germania non vuole. Ma queste risorse dovranno poi essere restituite.

Si tratta, in ogni caso, di un meccanismo complesso che toccherà diversi organismi, che richiederà quindi una grande buona volontà e una grande abilità tecnica e politica per farlo funzionare. Comunque, la minaccia di attingere ai soldi versati dagli obbligazionisti e dai depositanti sarà probabilmente sufficiente a impedire che nei prossimi anni le banche del Sud Europa riescano a far affluire nelle loro casse del denaro, se non pagandolo moltissimo.

Un altro pezzo della costruzione riguarda il meccanismo di decisione in merito alla dichiarazione di fallimento di una banca. Dunque, una volta che la Bce avrà accertato che un istituto è in gravi difficoltà, sarà un organismo formato dai rappresentanti finanziari dei vari paesi che si occuperà di constatare la malattia e che deciderà come guarire il malato. In ogni caso il tutto prenderà il via soltanto a partire dal 2015-2016.

Alla fine, comunque, gli obiettivi di fondo per cui era stata concepita l’unione bancaria restano sostanzialmente lontani.