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Troppo nazionalismo, Cool Japan non basta

Troppo nazionalismo, Cool Japan non basta – Lapresse

Giappone In Asia è vero che i fumetti e il turismo veicolano un’immagine del Giappone che vende bene, ma il revisionismo della classe politica al governo è un forte ostacolo ad un’attrazione politica dei vicini

Pubblicato più di 7 anni fa

Camminare per le strade di Namba, un quartiere di Osaka, in un qualsiasi giorno della settimana può far pensare che il Giappone eserciti una forza di attrazione immensa. Donne velate dal sud est asiatico, giovani cinesi, signore coreane e visitatori europei si mescolano ai locali in un turbine di shopping, cibo e divertimenti. L’anno scorso oltre 24 milioni di persone hanno visitato il paese, secondo l’Organizzazione giapponese del turismo, un numero record. Ciclicamente i turisti si guadagnano le pagine dei giornali per aver comprato in quantità massicce prodotti giapponesi di moda, dalle tavolette per il water ai cuociriso.

Allo stesso tempo gli stranieri consumano la cultura e i prodotti giapponesi a piene mani: dai videogiochi, al cibo, dai manga (i fumetti), agli anime (i cartoni animati), per passare all’elettronica, ai computer e alle automobili. Mentre le imprese straniere comprano robotica e treni. La stampa internazionale ha coniato il termine Cool Japan per descrivere questa fascinazione. Il governo ha cercato di raccogliere il potenziale politico di questa attrazione e nel 2012 ha creato il Ministero per il Cool Japan, guidato da Yosuke Tsuruho, per promuovere le esportazioni, soprattutto culturali. Joseph Nye ha definito la capacità di attirare gli altri, invece di costringerli con la forza, come l’essenza del soft power nelle relazioni internazionali. Il termine è stato adottato anche dal Ministero degli esteri nelle sue linee guida, con l’idea di sfruttare la forte posizione commerciale e culturale per influenzare la politica e l’opinione pubblica di altri paesi.

Il Ministero concepisce il complesso dei propri sforzi come strumento per generare «comprensione e supporto per le proprie posizioni e per la legittimità delle proprie pretese». Per promuovere l’immagine del Giappone, il governo ha puntato anche sullo sport come vetrina con le olimpiadi di Tokyo nel 2020. Ha poi istituito la Japan Foundation con corsi lingua, eventi e pubblicazioni e ha aperto una Japanese House a San Paolo e ne aprirà una Londra entro fine anno. Il Giappone, però, non esporta solo beni e servizi, ma anche regole. Un modo è la cooperazione diretta al rafforzamento del sistema legale degli altri paesi, con una serie di missioni in tutta l’Asia in via di sviluppo. Chiari gli obiettivi: «migliorare le condizioni di lavoro per le imprese giapponesi».

Il Giappone influenza anche le regole per gli investimenti e le opere pubbliche nei paesi beneficiari dei prestiti della Banca Asiatica dello Sviluppo. La banca, a guida nipponica dalla sua fondazione nel 1966, è al momento sulla difensiva per l’iniziativa di Pechino con la sua nuova AIIB, ma è molto presente in Asia e dotata di una governance più rodata della corrispondente cinese. Mentre la politica commerciale giapponese, basata sulle esportazioni, sembra raccogliere i frutti del Cool Japan, ne appare ambigua la portata politica generale. Anzi, proprio il soft power giapponese fa emergere le linee di frattura della società nipponica: del suo ruolo in Asia tra passato e presente; e tra società civile e classe politica al suo interno.

In Asia è vero che i fumetti e il turismo veicolano un’immagine del Giappone che vende bene, ma il revisionismo della classe politica al governo è un forte ostacolo ad un’attrazione politica dei vicini. Anzi, è in grado di generare repulsione, come in occasione delle continue visite ministeriali al santuario di Yasukuni dove vengono onorati anche i criminali di guerra. Pesa, insomma, sul soft power giapponese la mancanza di un gesto forte di discontinuità come quello del cancelliere tedesco Willy Brandt che nel 1970 si inginocchiò a Varsavia.

Il potenziale divisivo lo si è visto all’opera nel 2015 nell’opposizione coreana alla tutela UNESCO dell’isola industriale di epoca Meiji di Hashima sulla base dello sfruttamento di lavoratori forzati importati dal continente. Un episodio che mostra i limiti del soft power nipponico in un area, quella culturale, dove i frutti dovrebbero arrivare più facilmente.

Quello che il Ministero non cita nelle sue linee guida e che mostra la frattura tra politica e società civile è la forza dell’articolo 9 della Costituzione. La clausola di pace, come viene chiamata, è probabilmente il pezzo più importante del soft power giapponese, o se non altro l’unico modo per essere ben accetti in Asia. Almeno così la pensano i lavoratori del settore della cooperazione allo sviluppo intervistati in occasione di una manifestazioni in difesa della Costituzione, lo chiamano il Peace Brand del Giappone.
Inoltre, spiega l’addetto stampa della JVC, un’organizzazione di categoria, sono i valori politici, come la clausola di pace e l’astensione obbligata dagli interventi militari ad aprire in Asia spazi di manovra e di benvenuto.

Lo stesso Nye, nei suoi scritti, indica nel perseguimento di valori universali e di interessi comuni ad altre nazioni le aree di maggior successo per l’azione del soft power in politica estera.

Lasciare libera e vitale la creatività, come sa essere quella giapponese, e promuovere le istanze sociali ed economiche del paese, aldilà della classe politica nazionalista, rende e molto. Il soft power giapponese ci mostra, così, i suoi limiti nella frattura tra gli elementi migliori e più creativi che il popolo giapponese avrebbe, sia nella cultura che nella scienza e tecnologia così apprezzate all’estero, e la sua classe politica dominante, nazionalista, incapace di superare l’attaccamento nostalgico ad un passato inquietante.

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