«Un furto di democrazia». Non l’ha presa bene Matteo Salvini, per quanto fosse previsto che la Corte costituzionale avrebbe alla fine bocciato la richiesta di referendum elettorale della Lega. Il protrarsi della discussione all’interno della camera di consiglio, cominciata ieri mattina alle 9.30 e andata avanti con una breve interruzione per circa sei ore, così come le voci di una Corte spaccata a metà, rivelatesi poi alla fine infondate, avevano forse illuso i leghisti. Pure consapevoli in partenza di quanto fosse spericolata la loro richiesta, tanto che la memoria depositata dai Consigli regionali proponenti il referendum aveva una lunga premessa sull’opportunità politica di consultare il popolo sulla legge elettorale.

Lo stesso argomento utilizzato ieri polemicamente dal capo della Lega: «È una vergogna, il vecchio sistema che si difende e non lascia parlare il popolo». I giudici costituzionali hanno invece deciso, undici voti contro quattro, di dichiarare inammissibile la richiesta di referendum per un sistema elettorale interamente uninominale maggioritario perché «eccessivamente manipolativa». Facendo cadere proprio il perno della richiesta leghista, la legge delega firmata da Calderoli e promulgata pochi mesi fa per ridisegnare i collegi elettorali in seguito al taglio dei parlamentari. Delega che si sarebbe voluto estendere, ma appunto manipolandola eccessivamente, al ridisegno dei collegi che sarebbe diventato indispensabile in caso di modifica per via referendaria della legge elettorale.

Probabilmente – per saperlo bisognerà attendere le motivazioni della sentenza che devono essere depositate, per legge, entro il 10 febbraio – hanno prevalso le ragioni di diritto costituzionale esposte, nei giorni scorsi, anche su queste pagine e sostenute nella memoria ad opponendum dall’avvocato Felice Besostri. La Costituzione all’articolo 76 impone che delega legislativa al governo sia fatta dal parlamento e non direttamente dal corpo elettorale come sarebbe stato con il referendum; per un «tempo limitato», mentre in questo caso per effetto del ritaglio delle norme restava in piedi un termine vago; «per oggetti definiti», mentre in questo caso si voleva piegare una delega prevista (sin dal titolo!) per la riforma costituzionale – peraltro ancora sospesa – per coprire gli effetti di una riforma elettorale.

TUTTI I GIUDICI hanno preso la parola in camera di consiglio e uno di loro, inizialmente favorevole all’ammissibilità, si è lasciato convincere dagli argomenti di chi ha sostenuto la tesi prevalente, consentendo al collegio di arrivare a una, secondo indiscrezioni, «maggioranza solida e ampia».

Ma prima ancora i quindici giudici delle leggi hanno preso in esame il conflitto fra poteri che cinque regioni (delle otto che hanno proposto il referendum) avevano provato ad avanzare alla Corte, in modo da far dichiarare incostituzionale la stessa norma che è alla base del principio di autoapplicabilità dei referendum elettorali. Una sorta di arma di riserva, utilizzata nella memoria dei promotori una seconda volta, nella forma della richiesta in via subordinata alla Corte.

Ma la Corte ha chiuso entrambe le strade. Anche se in definitiva non sembra aver sentenziato (in attesa delle motivazioni) che il problema di questo referendum stava nella sua non autoapplicabilità, il fatto cioè che avrebbe lasciato un buco nell’ordinamento rendendo inutilizzabile proprio una legge costituzionalmente necessaria, la legge elettorale. Ma sembra aver sanzionato il fatto che per raggiungere l’obiettivo della autoapplicabilità si manipolavano eccessivamente le norme, con un taglia e cuci dagli effetti più propositivi che abrogativi. Manipolazione «eccessiva» perché la Corte ne considera tollerabile una certa dose da quando, il 16 gennaio del ’93, ha ammesso il primo storico referendum elettorale.

«Estremamente soddisfatto» l’avvocato Besostri, secondo il quale la decisione della Corte «è la dimostrazione che le regioni non devono mettersi al servizio di una causa politica, in questo caso quella della Lega. Vorrei capire perché, se otto consigli regionali considerano desiderabile un sistema elettorale totalmente maggioritario uninominale, non lo hanno già adottato per la loro competenza nei loro territori». Mentre il professor Giovanni Guzzetta, avvocato dei consigli regionali proponenti, si domanda «se in futuro ci sarà ancora spazio per i referendum elettorali, visto che le esigenze di autoapplicabilità consentono al legislatore di costruire le leggi in modo che non siano referendabili».

Tra i più soddisfatti per l’esito ci sono certamente i partiti della maggioranza di governo che stanno lavorando a una riforma elettorale proporzionale, sebbene corretta da una soglia di sbarramento alta (5%). Alla vigilia si dicevano intenzionati ad andare avanti in questa direzione anche in caso di referendum pro maggioritario, ma da oggi la loro strada è meno accidentata. Anche se resta lunga.