Il Ciad è un gigante al confine di una serie di conflitti. A est c’è il Sudan/Darfur da cui a partire dal 2003 sono fuggiti in Ciad oltre 300mila rifugiati; a sud i rifugiati della Repubblica Centrafricana, almeno 100 mila; a ovest 15mila rifugiati nigeriani fuggiti dalle violenze di Boko Haram. Poi gli arrivi dalla Libia, almeno 20mila persone.

Sono tutti confini molto complicati e porosi che favoriscono situazioni in cui è difficile controllare il vero e il falso. A questo si sono associati negli ultimi giorni i conflitti nel Ciad orientale tra pastori e agricoltori che hanno causato già 35 morti.

La causa sarebbe l’invasione da parte di mandrie di cammelli appartenenti a pastori nomadi dentro terreni coltivati dalla comunità Ouaddaïans. Nella provincia di Sila, 23 persone sono state uccise e tre villaggi incendiati tra domenica 23 febbraio e lunedì 24, riferisce all’Afp il governatore della provincia, Oumar Sanda Makache III.

Altre 12 persone (nove agricoltori Ouaddaiani e tre pastori arabi) sarebbero state uccise giovedì scorso nella vicina provincia di Ouaddaï dopo l’incursione in un villaggio di uomini pesantemente armati, secondo il procuratore provinciale Hassan Djamouss Hachimi che ha dichiarato dopo l’attacco: «Abbiamo arrestato 30 persone e sequestrato diverse armi da guerra».

Incidenti simili erano avvenuti nel novembre 2018: una decina di persone erano state uccise a 60 km da Abéché, la capitale di Ouaddaï. La situazione di criticità del territorio e la guerra oltre confine (Darfur) ha favorito la forte presenza di armi tra gli abitanti, ma il presidente del Ciad Idriss Déby ha affermato: «L’ora della vendetta è finita: farsi giustizia rappresenta un fallimento della giustizia».

Tuttavia, secondo lo storico Mahamat Saleh Yacoub, la persistenza di conflitti nel Ciad orientale deriva dall’affrontare «le differenze in modo superficiale. L’aumento della siccità nella regione e la pressione demografica hanno avuto l’effetto di intensificare le tensioni legate alla transumanza. Su questi cambiamenti strutturali si sono innestati problemi etnici e non viceversa».

Invece nella capitale N’Djamena a preoccupare i cittadini è il numero crescente di omicidi. Ha suscitato particolare scalpore, la scorsa settimana, l’uccisione di una donna di 64 anni, Mopi Célestine, che fa seguito a episodi analoghi nei giorni precedenti. Le autorità hanno emanato una serie di provvedimenti volti ad arginare il fenomeno.

I taxi-moto clandos non potranno più circolare nella capitale dopo le 23, ha annunciato il generale Mahamat Abali Salah, ministro degli interni.  È inoltre vietato chiedere l’elemosina alle rotonde perché, dice il generale, «crea insicurezza e questa insicurezza è nostra responsabilità contenerla».

Secondo il missionario comboniano Filippo Ivardi, sono «manovre del regime per far vedere che controlla la capitale. Ma non sono certo i mendicanti, quelli che la gente chiama i muhajjirin, i veri responsabili delle violenze. Sono ben altri banditi, spesso intoccabili, che approfittano dell’impunità dentro una situazione molto incerta».