La macchina fiscale in Italia si trova in panne per una serie di motivi che è utile analizzare.

Una riforma vera e duratura non può non partire dalla diversa modalità di pagamento delle tasse tra lavoratori dipendenti e autonomi. I primi le pagano con le ritenute alla fonte e fino all’ultimo centesimo, i secondi dichiarano o nascondono il proprio reddito con un ampio margine di discrezionalità.

L’evasione nasce da qui. L’Agenzia delle entrate fa pochi controlli e, anche quando è in possesso dei dati sui contribuenti infedeli, spesso è bloccata dalle norme sulla privacy. Con tutta evidenza questo dovrebbe essere il primo nodo da affrontare.

Se guardiamo alle imposte dirette, scopriamo che lavoratori dipendenti e pensionati, con l’Irpef, assicurano alle casse dello Stato le entrate più consistenti. Le società versano l’Ires, che rappresenta il 20 per cento dell’intero gettito. Dai redditi da capitale proviene un altro 7 per cento. Dai proprietari di immobili il 7 per cento.

È interessante notare, inoltre, che negli ultimi trent’anni la quota dei redditi lavorativi rispetto al reddito nazionale è calata dal 65 per cento a meno del 50 per cento. Al tempo stesso, il gettito Irpef, che rappresentava il 6,5 per cento del Pil, è balzato al 12 per cento.

La pressione fiscale, com’è evidente, colpisce il lavoro dipendente in maniera eccessiva e insostenibile. Sui redditi da lavoro ricade, è bene ricordarlo, il finanziamento del «welfare state».

C’è da aggiungere che l’Irpef presenta forti distorsioni anche al suo interno. L’imposta, sottoposta dagli anni ottanta in poi ad una serie di restyling per attenuarne la progressività, naturalmente a vantaggio dei redditi alti, ha perso l’equità verticale che la caratterizzava al momento della sua istituzione. Rimane progressiva solo per i livelli di reddito medio e basso.

È proporzionale per la maggioranza dei contribuenti. Diventa regressiva per i ceti benestanti. Ormai, dell’Irpef si può parlare a ragion veduta come di un Robin Hood alla rovescia.

Dal calcolo dell’Irpef sono state sottratte basi imponibili (rendite finanziarie e immobiliari, redditi da capitale) che godono di un trattamento fiscale separato e di favore. Il calcolo è inoltre complicato da una giungla di detrazioni, deduzioni, bonus, sussidi, incentivi, agevolazioni che, da una parte, penalizza i contribuenti onesti (e a basso reddito) e, dall’altra, premia chi elude ed evade.

Una riforma seria presuppone il disboscamento di questa giungla, il recupero di base imponibile e il ripristino di una progressività reale, non basata su scaglioni di reddito, come ora, ma su una funzione matematica. Nell’epoca dell’algoritmo non è difficile (in Germania si fa già così).

Anche le imposte indirette colpiscono i redditi in forma decrescente. Chi guadagna poco spende in consumi il 100 per cento del reddito, pagandoci sopra l’Iva corrispondente. Il ricco invece paga tasse indirette solo sulla parte del reddito che usa per i consumi. Chi conduce una vita agiata non ha bisogno di spendere tutto quello che guadagna.

La revisione dell’Iva rappresenta un tassello importante della riforma. Spostare una quota di tassazione dal lavoro ai consumi richiede la rimodulazione dell’Iva in modo da abbassarne l’aliquota ordinaria sui consumi popolari e di massa, alzando quella sui consumi di lusso.

Il fisco è privo anche di equità orizzontale.

Rispetto al lavoratore autonomo con partita Iva che fino a 65 mila euro paga la tassa piatta (flat tax) del 15 per cento, il lavoratore dipendente con lo stesso reddito paga il doppio. Ancora, l’esenzione Imu sull’abitazione principale vale a prescindere dal reddito o dal patrimonio mobiliare e immobiliare posseduto. Un altro caso, che dimostra quanto il prelievo sia disuguale e favorisca chi è dominus del suo reddito, è quello dei ricchi che si avvalgono di società di capitale. A lor signori sono consentite numerose scappatoie legali per eludere ed evadere.

In ultimo, il problema dell’imposta patrimoniale. La ricchezza finanziaria e immobiliare delle famiglie ammonta a 10 mila miliardi. Per metà sono azioni, obbligazioni, titoli di stato, depositi bancari. L’altra metà sono immobili e terreni. Si tratta di una ricchezza che si concentra sempre più in poche mani.

Ma su questo immenso patrimonio privato il livello complessivo di tassazione incide solo per lo 0,36 per cento, come documenta il dossier su Fisco e Debito, pubblicato da CADTM Italia. il pdf qui 

L’attuale sistema, dunque, penalizza chi vive del proprio lavoro e protegge in modo indiscriminato chi possiede grandi ricchezze finanziarie e immobiliari.
Dopo un anno e mezzo di pandemia, in cui il debito pubblico è schizzato in alto mentre il benessere della maggioranza dei cittadini è diminuito, chi ha di più dovrebbe farsi carico del peso di una maggiore tassazione. Lasciamo alla destra il facile, e falso, slogan che promette meno tasse per tutti.

Il campo largo della sinistra deve affrontare la questione tenendo a mente le parole di don Milani: «Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali».