Trentacinque negozi e cinquecento lavoratori Trony sono le prime vittime. Presto se ne annunciano altre. La crisi dell’elettronica di consumo rischia di cancellare buona parte dei 10mila posti di lavoro lungo la penisola a causa della concorrenza di Amazon e e-commerce che provoca una spirale al ribasso di prezzi, ricavi, salari e diritti.

IERI AL MINISTERO dello Sviluppo – senza Calenda e nemmeno un tweet decidato dal ministro uscente – si è tenuto l’incontro per tentare di scongiurare il licenziamento dei lavoratori del gruppo Dps, costola del marchio Trony. Il 15 marzo il tribunale di Milano ha decretato il fallimento della società del pugliese Antonio Piccinno. La sua richiesta di concordato in bianco è stata bocciata con tempistiche molto brusche e così i 500 lavoratori dei negozi disseminati in Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Puglia e Basilicata hanno saputo via whatsapp di non avere più un lavoro.

IN REALTÀ NON CI SONO CERTEZZE neanche sui numeri. «È stato abbastanza imbarazzante sapere che nemmeno i curatori sanno quanti negozi ha Dps – spiega Alessio Di Labio della Filcams Cgil – . A noi risultato 43 negozi, loro dicono che sono solo 35. L’unica spiegazione è che gli otto mancanti siano contratti di affitto già scaduti».

CON LORO RISCHIANO DI SCADERE anche i lavoratori e allora la richiesta dei sindacati è quella di consentire l’esercizio provvisorio per lasciare i negozi – o alcuni di loro – aperti per tenere i lavoratori aggrappati, consentire la richiesta di cassa integrazione e evitare che la prospettiva della cessione di ramo d’azienda si concretizzi con i possibili acquirenti si prendano la sola rete di vendita spogliata dei dipendenti.

La risposta della curatela – commissiario nominato dal tribunale e suo consulente – ieri è stata negativa. «Ci sono troppo pochi prodotti: lasciare aperti i negozi produrrebbe più costi che entrate», sostengono.

SARÀ IL GIUDICE A DECIDERE stamattina nell’udienza che si terrà al tribunale di Milano e lì i rappresentati di Fisascat Cisl, Filcams Cgil e Uiltucs tenteranno di convincerlo a non ascoltare chi ha nominato. Naturalmente l’ottimismo non regna sovrano, ma la presenza di molti lavoratori in carne e ossa si spera ribalti le previsioni. Se il giudice non accordasse l’esercizio provvisorio, i lavoratori sarebbero ulteriormente beffati. Hanno ricevuto le lettere di sospensione senza retribuzione con data retroattiva al giorno della dichiarazione di fallimento, ma così «devono continuare a pagare mutui e debiti che non vengono sospesi come in caso di licenziamento», spiega Di Labio.

Il Mise ieri non ha potuto far altro che convocare un nuovo incontro per il 5 aprile impegnandosi per quella data ad aver contattato tutte le altre grandi catene per sapere se qualcuno è interessato ai 35 (o 43) negozi. Da tempo si fa il nome di Unieuro, l’unico gruppo in espansione, ma niente è ancora trapelato formalmente.

«La cessione di ramo d’azienda tramite tempestive manifestazioni di interesse è l’unico modo per risollevare le sorti di almeno parte dei negozi attraverso un serio piano di rilancio», commenta Mirco Ceotto, segretario nazionale Fisascat Cisl. «Il ministero – ha confermato Ivana Veronese, segretaria nazionale Uiltucs – punta a darci una mano e proverà a cercare possibili acquirenti. Ora speriamo nel giudice».

ALTRE CRISI E VERTENZE SONO GIÀ in corso. Nel marchio Euronics, che più risponde all’idea di gruppo d’acquisto di una rete di negozi locali, la situazione dei negozi di proprietà di Paolo Galimberti, pezzo grosso di Forza Italia in Lombardia -anch’egli in concordato in bianco – «sta passando sotto silenzio», ricorda Di Labio.

PROSEGUE CON «COMPORTAMENTI sempre più scorretti da parte dell’azienda» la vertenza Mediaworld. La catena leader del mercato con circa il 50 per cento del mercato ha già annunciato 180 esuberi e spinge per imporre un taglio di salari e diritti. Allo sciopero nazionale del 3 marzo hanno fatto seguito scioperi a singhiozzo anche perché «l’azienda in modo unilaterale sta procedendo a trasferimenti perfino di lavoratori considerati esuberi, con l’intento di forzarli a dimettersi. Prima di passare alle vie legali presentando un ricorso ex articolo 28 per comportamento antisindacale ci siamo rivolti al ministero del lavoro – spiega Di Labio – . Il contratto di solidarietà scade il 30 aprile, speriamo che almeno loro riescano a convincere l’azienda a risedersi al tavolo delle trattative».