Ammirato dal lume lenticolare di una natura morta che assemblava da destra a sinistra un bricco da caffè, un ventaglio, un violino e un piatto in ceramica a striature bluettes (la piccola tela che poteva rammentare persino un Baschenis era esposta alla «Terza Biennale Romana», Palazzo delle Esposizioni, primavera del 1925), pare che Roberto Longhi annotasse sul taccuino una firma del tutto onoraria, Rachel van Trombadorhuysum. Il suo era un atto di riconoscimento e, insieme, di affezione per un’arte di perizia olandese che nei decenni si sarebbe confermata. L’artista allora quarantenne, Francesco Trombadori (Siracusa 1886-Roma 1961), era già riconoscibile fra i cauti modernisti o elettivamente classicisti di «Valori Plastici» e tuttavia era spesso equivocato, a quella altezza, o confuso con i fossili di una tradizione ritardataria o talune comparse più o meno dialettali che ogni giorno si trovavano al Caffè Aragno in via del Corso. (Tanto per dire, due anni prima, recensendo la «Seconda Biennale», Emilio Cecchi aveva parlato dei colori di costui come di un affogatoio in cui rapprendano lo zucchero fuso e la caramella nera. Anche se Cecchi, va pure detto, dell’arte sua contemporanea non intendeva praticamente nulla né mai si spinse oltre l’oleografia mite e assennata di un Armando Spadini). Che viceversa l’arte di Trombadori avesse precocemente rinvenuto una propria autocoscienza illimpidendo la finalità di una pittura sempre bastevole a sé stessa, nitida e spoglia, è riprova non solo la precoce intuizione di Longhi ma il percorso quasi ascetico nella propria cadenza che via via la consegna a esiti, in senso etimologico, di straordinaria essenzialità.
Novità a Villa Strohl-Fern
Dunque non è un caso che la mostra allestita alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, via Crispi, a cura di Giovanna Caterina de Feo in collaborazione con Arianna Angelelli, si intitoli oggi L’essenziale verità delle cose (fino all’11 febbraio, catalogo Maretti Editore, pp. 199, euro 30.00), a trent’anni e più dall’ antologica allestita nel 1986, e davvero fu un evento, all’Accademia di San Luca da Maurizio Fagiolo dell’Arco e Valerio Rivosecchi. Ma allora si trattava di decifrare un palinsesto, oggi invece di integrare e definire un percorso sulla base di ulteriori documenti ordinati a Villa Strohl-Fern, atelier, dimora a vita e ricettacolo di un artista, pure tanto austero e defilato, che non smise mai di entrare nell’arengo con articoli di critica militante (su quotidiani e riviste, da «Gente nostra» a «Circoli») come testimonia in catalogo la ricca silloge, databile tra il ’29 e il ’38, la quale anticipa idealmente, non soltanto cronologicamente, l’attitudine di un altro grande siculo che sempre lo guardò come un battistrada e un maestro, nientemeno Renato Guttuso.
L’antefatto di Trombadori, prima autodidatta dentro una famiglia di librai e legatori poi studente a Roma in Accademia dal 1907, coincide con gli ultimi fasti della Secessione, ma il senso comune del divisionismo presto in lui viene a emulsionarsi, fino a spegnersi, nella grafica e in affiches di così spigolosa pregnanza da rinvenire in sottofondo non tanto la neonata grammatica cubista (ne dice in catalogo il contributo di Gloria Raimondi) quanto la lezione progressiva, implacabile, di Cézanne nel trapasso della Grande Guerra che per Trombadori, ferito e decorato, sancisce la fine dell’età dell’innocenza. Perciò la sua adesione a «Valori Plastici» non corrisponde a una poetica ma più che altro a una salvezza nell’arte come tale, nella sua materiale e feriale («olandese») consistenza, nella sua più elementare operosità.
Nell’opera di Trombadori c’è il mondo ma non vi esistono più gli esseri umani se non come macchie laterali e impercettibili, perché il suo modello, d’ora in avanti, è la replica infinita di una Montaigne Saint Victoire dove solo la natura morta può dirsi finalmente viva nella simmetria dei volumi e nella gamma di colori vividi che la luce sa filtrare, attenuare, senza spegnerli: anche i ritratti per cui andò celebre (basterebbe quello che annuncia la mostra, il nudo di Fanciulla che legge, 1929) sono infatti interpretabili alla stregua di volumetrie o di paradossali nature morte.
Quanto a ciò, la mostra (una sessantina di tele databili fra il ’19 e il ‘61, unitamente a disegni, alcuni stupendi di nudo femminile, e materiale documentario) viene ordinata su tre piani, ha scansione molto netta, un allestimento sobrio e un buon impianto di illuminazione nonostante la disparità dei vani che la ospitano. Al piano intermedio stanno le nature morte in cui Trombadori riconosce finalmente sé stesso (e sono opere talora meta-pittoriche, come quella, ’42, che include a sotto-piatto una copia del «Selvaggio» dell’amico Maccari); a piano terra i ritratti, dove si alternano omaggi allo spirito del tempo (c’è anche un Italo Balbo, del ’27, ma forse inconsciamente appiattito e quasi spento nei toni) e riuscite memorabili quali l’Elena Graziani del ’30, nella cui compostezza e nella opalescenza dello sguardo fisso rivive qualcosa del picassiano Portrait d’Olga dans un fauteuil (del 1918) che il visitatore può avere ammirato poche ore prima alle Scuderie del Quirinale.
Un omaggio a Morandi
Ma la maniera grande e ultima di Trombadori è nei paesaggi del secondo dopoguerra che la GAM colloca al terzo piano. Qui il siracusano di Ortigia attinge a momenti l’altezza dei suoi grandi coetanei e compagni di via, da Scipione a Mafai e specialmente Morandi cui rende un silenzioso omaggio deducendone la luce equanime, sovrana. Qui, come scrive il nipote Duccio Trombadori, si assiste allo spettacolo di un artista che, negli anni di massimo contenzioso fra realismo e astrazione, sceglie una postura terza e originale, la stessa di chi si propone di «filtrare il vero» senza subirlo né rigettarlo. (E non è affatto un caso che il poeta Adriano Grande, presentandolo in una breve monografia per le edizioni di «Circoli», avesse parlato già nel ’38 della sua ispirazione come di una costante intuizione lirica). E proprio qui, tra Piazza del Popolo, Campo de’ Fiori e la Piramide Cestia, nella totale diserzione di ogni essere vivente, nella neutralità paradossale del puro spazio-ambiente, proprio qui Roberto Longhi (si legga il necrologio in «Paragone», ’64) vedrà culminare una luce intatta, verticale, e nel frattempo totalmente collassata, in una «Roma incantata, desertica, d’alto meriggio, dove però il pieno sole è abbagliato dagli occhiali neri, quasi scambiandosi con un silenzioso plenilunio».
Erano gli anni in cui Francesco Trombadori usciva da Villa Strohl-Fern, a orari improbabili, non per dipingere ma per fotografare certi siti dell’Urbe. Sviluppate le foto, le quadrettava e per così dire le traduceva come tessere musaiche, per frammenti successivi, su tela, quindi dalla tela le traguardava rovesciando a cannocchiale la procedura cézanniana che dal quadro, viceversa, aggettava per via diretta al profilo della Montaigne Sanit Victoire. Raccontano che quando per la prima volta (nel ’51, alla Galleria del Pincio) espose le vedute lunari di Roma, uno ancora più malevolo di Cecchi, e cioè il poeta Vincenzo Cardarelli, gli si avvicinasse per dirgli soltanto: «Trovo che hai capito molte cose. Però c’è sempre la tua vecchia tavolozza». Voleva essere una esecuzione ed era invece, del tutto fortuita, l’incoronazione di Rachel van Trombadorhuysum, il maggiore, il più coerente dei nostri olandesi.