Renzi e i suoi ministri hanno una bella faccia tosta e dimenticano, ora che sono al potere, le cose che hanno detto quando erano all’opposizione. Bene ha fatto il capogruppo di Sinistra Italiana Arturo Scotto a ricordare la dichiarazione di Dario Franceschini del marzo 2011 quando, da capogruppo Pd, accusava il governo Berlusconi di buttare dalla finestra 300 milioni di euro non procedendo ad accorpare referendum ed amministrative. Non solo il governo Renzi non ha voluto l’election day, ma ha stabilito di celebrare il referendum il 17 aprile. Prima data utile, che ha lo scopo di ridurre il tempo per un’adeguata sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Puntando al non raggiungimento del quorum. Poteva fare un decreto legge discutendo subito la proposta di legge di Si. Con lo Sblocca Italia e la previsione del “titolo unico” si è sostanzialmente dato mano libera alle compagnie petrolifere italiane e straniere sia sulla terraferma che in mare. In seguito all’approvazione di questa legge è nato un movimento nel Paese, e in Basilicata, la mia terra, che si è messo in moto per evidenziare l’incostituzionalità della legge che nel frattempo era stata impugnata da alcune Regioni (non la Basilicata, purtroppo, nonostante la grande manifestazione del 4 dicembre 2014 a Potenza).

Il movimento di protesta, in particolare contro le estrazioni off shore, è continuato e 10 regioni hanno proposto diversi quesiti referendari che, in prima istanza, avevano peraltro superato il vaglio della Corte di Cassazione. A questo punto il governo nella legge di stabilità ha apportato alcune modifiche con l’intento, non del tutto riuscito, di vanificare i quesiti e impedire lo svolgimento del referendum.

Per la verità Renzi ha approfittato della proposta referendaria delle Regioni per fare una modifica peggiorativa dello Sblocca Italia sopprimendo il comma 1 bis del famigerato art. 38 che vincolava il rilascio dei titoli unici all’approvazione, in accordo con le Regioni, di un Piano delle aree per le estrazioni. Una zeppa che gli avevamo messo in commissione Ambiente alla Camera.

A questo punto alcune domande sorgono spontanee: se l’unico quesito rimasto sul tavolo riguarda una sola questione è cioè il termine di durata delle concessioni perché il governo non procede ad un’ulteriore modifica evitando così il referendum? Se il referendum non infastidisce il governo perché non accorparlo e risparmiare così 300 milioni di euro?
La risposta è semplice: perché Renzi spera di sommare la scarsa partecipazione al voto con l’abbassamento della tensione sul tema. Dopo lo scivolone sulle Tremiti, il governo rivendicherà di aver respinto alcune richieste delle compagnie petrolifere che ricadevano intorno o entro le famose 12 miglia dalla costa.

Con quale scopo? Dare un calcio alle regioni e al regionalismo per rafforzare un neo-centralismo molto presente nella riforma costituzionale e per continuare nell’azione, concepita dalle lobby e da ambienti governativi, di estrarre il petrolio senza limiti e senza alcuna programmazione. In poche parole dando mani libere alle compagnie italiane e straniere di estrarre in mare oltre le 12 miglia e soprattutto sulla terraferma, neutralizzando così i movimenti ambientalisti e i cosiddetti “comitatini”, di intralcio a questa politica di distruzione ambientale, ma anche civile e morale, di un’Italia con un territorio già molto fragile. Una politica sbagliata quando il petrolio costava oltre 100 dollari al barile, figurarsi ora con il calo del costo del petrolio. Con il referendum la posta in gioco va oltre le criticità localistiche connesse alle estrazioni. È in gioco il modello di sviluppo del paese, la sua politica energetica, incerta e inefficace allo stato attuale, la tutela della natura, dell’ambiente, della salute, del territorio e anche il rapporto tra governo e governati. Per tutte queste ragioni, come è avvenuto altre volte nella nostra storia, il 17 aprile gli italiani faranno valere le ragioni della democrazia, della civiltà, della difesa degli interessi popolari e del territorio.

* deputato Sinistra Italiana