Lui si definisce un «monaco miniatore», che se ne sta lì a tirar fuori immagini dalle parole: dove queste non riescono del tutto a prendere forma sulle pagine, dove la visionarietà confonde i contorni, Mimmo Paladino riscopre la sua vena di bricoleur del fantastico ed esplora le risonanze possibili con il suo universo di colori, figure e frammenti che affiorano. Così, a Milano, presso il museo del Novecento, la mostra Disegnare le parole: Mimmo Paladino tra arte e letteratura (fino al 4 settembre, a cura di Giorgio Bacci) propone un’ampia monografica con oltre centosessanta opere su quel versante letterario-visivo che l’artista ha molte volte attraversato, diradando ombre e allestendo teatri dell’inconscio. Non è un lavoro di mera illustrazione, specifica l’autore, perché «se un editore rivolge il suo progetto di disegnare le pagine a un pittore, sa già dall’inizio che non ci sarà fedeltà al testo scritto. La libertà è totale. Lo stesso Doré si permetteva delle licenze rispetto alla Divina Commedia!». E proprio al sommo poeta è dedicata l’installazione inedita 33 fogli danteschi, una sorta di labirinto in forma di libro che si squaderna e diventa spazio, limite, percorso ambiguo, fra i paradisi e gli inferni del quotidiano.

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Gli echi letterari che si «ascoltano» visitando l’esposizione sono caleidoscopoci: si va da Gogol a Pavese, passando per Pinocchio fino a Joyce e Cervantes, «tutti testi estremamente visionari dal punto di vista dell’invenzione di un’immagine, basti pensare al don Chisciotte». Eppure, la parola a volte non riesce a essere pittorica ed è lì che entra in scena l’artista. È lui a possedere insoliti ferri del mestiere rispetto alla scrittura. E quindi scarta, ricrea, cuce insieme «brani» diversi.

È accaduto, comunque, a Paladino di essersi confrontato con autori che non permettevano molto di sbirciare in altri mondi, ma riconducevano con una certa autorevolezza fra le pagine. Uno di questi è stato Cesare Pavese. «Per La luna e i falò ho inventato un linguaggio che non ho mai utilizzato prima, molto figurativo – confessa l’artista -. Il romanzo di Pavese è concretamente legato alla nostra storia recente, a episodi che sono ancora vivi. Non è un autore favolistico, ma ha una lingua possente. E alcune pagine non potevano che essere disegnate in modo visivamente comprensibile».

Ma che tipo di lettore è, alla fine, Paladino? «Non amo leggere nel modo in cui si affronta tradizionalmente un libro – dice – Il mio particolare amore verso l’Ulisse di Joyce nasce proprio dal fatto che lo possiamo leggere come ci pare. È un bel gioco da fare, una volta diventati grandi… Ritengo, come Eco, che un’opera debba essere sempre aperta, non può essere condizionata da un inizio e una fine. Lo stesso vale per il cinema: nella sua qualità narrativa è importante che comprenda la libertà di interpretazione dello spettatore. In genere, lavoro su testi letterari con cui sono in sintonia; disegno il don Chisciotte perché ho piacere nel farlo. Anzi, nel caso di Cervantes, ho avuto come Virgilio Corrado Bologna che mi ha guidato e portato a tagliuzzare tutto ciò che poteva essere utile al segno, al film, al teatro. Così, la rilettura del classico è stata frammentaria, privilegiando le pagine che avessero risonanze con il mio universo».

Se proprio deve scegliere, Mimmo Paladino (magari ascoltando la musica di Bach e Mozart, passando poi ai più contemporanei Philip Glass e Brian Eno) fiuta i territori dove la capacità di narrare si manifesta sovrana. «Preferisco la saggistica ai romanzi. Tristi Tropici di Lévi Strauss l’ho letto più volte, anche quando non dovevo illustrarlo. Per i cento anni dell’antropologo, dalla Germania mi hanno chiesto di disegnare i suoi testi: l’ho fatto di corsa e ho preteso in cambio una dedica. È un saggio scritto con una penna letteraria notevole, un po’ come faceva Ernesto De Martino o il Brandi di Pellegrino di Puglia. Tutti testi che andavano molto al di là della noiosa critica d’arte a cui siamo abituati…».