La Libia è uno stato fallito: ai vertici della lunga lista dei paesi a pezzi in cima alla quale campeggiano Somalia e Siria. E questo fa comodo a tanti che fanno affari con i migranti, ai traffici che passano per le mani dei contrabbandieri, ai mercanti di armi, fino alle grandi compagnie petrolifere che continuano ad estrarre a prezzi stracciati e ai conquistatori della terra di nessuno, lasciata ai fanatici del jihad. Eppure rispetto alla Somalia in Libia non esiste neppure uno straccio di autorità centrale da chiamare governo.

Se i media si divertono a definire legittimo il barcone al largo di Tobruk che osanna la leadership debole dell’ex generale Khalifa Haftar, mentre tutte le rappresentanze diplomatiche occidentali sono scappate dal paese in fiamme, ci pensa Tripoli a rimescolare le carte. Il parlamento islamista ieri ha avvertito ancora una volta che nessuno deve azzardarsi ad attaccare la Libia. Il governo di Tripoli non accetterà che l’Unione europea bombardi le coste libiche per colpire gli scafisti: ha tuonato il ministro degli Esteri del governo tripolino del dimissionario Omar al-Hassi, Muhammed el-Ghirani.

«Abbiamo fatto del nostro meglio per indurre l’Europa a collaborare con noi sull’immigrazione illegale ma continuano a dire che non siamo il governo riconosciuto dalla comunità internazionale», ha aggiunto. El-Ghirani è certo che gli attacchi mirati, paventati anche dal premier italiano Matteo Renzi impegnato ieri nel Consiglio europeo sulla crisi libica, non farebbero altro che colpire pescatori e innocenti. Ogni azione invece dovrebbe essere concordata con Tripoli.

Ma ormai la Libia ha superato tutti gli altri paesi in anarchia. Se il governo somalo aveva chiesto l’aiuto internazionale che poi arrivò con la missione Atalanta di monitoraggio delle coste contro la pirateria, Tripoli non vuole neppure l’aiuto occidentale né bombardamenti mirati, tantomeno la distruzione delle imbarcazioni degli scafisti. È evidente che colpire una delle centinaia di milizie che operano nel paese non fermerebbe le altre dall’avvantaggiarsi del vuoto lasciato dai diretti concorrenti. E così, sebbene sia poco utile schierarsi con l’una o l’altra fazione libica in un contesto di completa assenza dello stato, degli spunti di verità nella difesa del paese che vengono dal parlamento di Tripoli, appoggiato dalle milizie Scudo di Misurata, ci sono.

Sebbene le autorità della capitale libica siano decadute lo scorso anno, godono di ampio sostegno nell’esercito regolare e si sono costantemente impegnate attraverso il cartello anti-Haftar Alba (Fajr) nella lotta allo Stato islamico (Is), bombardando ripetutamente Derna e Sirte. Anche ieri sono continuati gli scontri fra i miliziani di Misurata e i jihadisti asserragliati a Sirte, la città natale di Gheddafi. Gli scontri sono stati confermati dai combattenti della Brigata 166, parte delle milizie Scudo. Tra questi Abu Gazeya ha riferito che i jihadisti si sono asserragliati nel palazzo del governo e dell’Università.

Tante volte i miliziani di Misurata hanno annunciato la liberazione del centro di Sirte, notizia mai dimostratasi attendibile. Il centro di Sirte è andato quasi completamente distrutto, in particolare edifici amministrativi, della radio pubblica, la scuola Omar al Mukhtar, un deposito di alimentari calmierati e alloggi per militari sono in macerie. L’offensiva di Fajr ha colpito anche la città filo-Haftar di Zintan. In particolare sono stati attaccati l’aeroporto e i palazzi dell’amministrazione locale.

Ieri poi un giornalista, Muftah al-Qatrani dell’emittente televisiva privata al-Anwar, è stato assassinato nel suo ufficio nel centro di Bengasi con un colpo d’arma da fuoco alla testa.
I tripolini hanno poi mostrato buona capacità negoziale sedendosi al tavolo voluto dall’Onu, grazie anche alla mediazione della Fratellanza tunisina. Non solo hanno saputo mantenere i nervi saldi nonostante i continui bombardamenti illegittimi perché in violazione del cessate il fuoco, lanciati da Haftar e dai Zintani sull’aeroporto di Tripoli. Il governo della Cirenaica invece non passa giorno che non invochi l’intervento internazionale. Ma ora è Tripoli a chiedere di essere riconosciuta.