Il ripescaggio editoriale è pratica assai diffusa negli ultimi anni, non è chiaro se per rendere giustizia tardiva agli ingiustamente sepolti dall’oblio, oppure per disperazione e timore del presente. È un fatto, però, che si scava tra le macerie del già scritto e del già archiviato, nella speranza di estrarne qualche perla e qualche caso editoriale. A volte va bene, a volte c’è più fumo che letteratura, e il clamore supera il valore: è il caso di Stoner, il pur notevole romanzo di John E. Williams, celebrato fuori tempo massimo e diventato poi gallina dalle uova d’oro in libreria, come pure quello di Kent Haruf, romanziere sopravvalutato per cui si sono spesi frettolosamente nomi consolidati della letteratura nordamericana, di cui l’encomiabile NN ha pubblicato con successo la Trilogia della pianura.
Altra storia, quella di Lucia Berlin, scrittrice irregolare di prim’ordine, brada e raffinata, come dimostra il suo La donna che scriveva racconti (Bollati Boringhieri, nella bella traduzione di Federica Aceto ma con un inspiegabile cambio di titolo rispetto all’orginale e più efficace A manual for cleaning women).

Ancora diverso il caso di Il pastore d’Islanda di Gunnar Gunnarsson, pubblicato da Iperborea: di lui uscì una tetralogia da Sansoni nel 1942 (come ricorda Alessandro Zironi nella sua accurata postfazione) poi venne scaravantato nell’affollata fossa comune scavata dal tempo. Ora risale la china grazie a un altro autore islandese, Jón Kalman Stefánsson, che ne ha stabilito la genealogia letteraria, e lo ha messo in rilievo come uno scrittore tra i più importanti della letteratura islandese del Novecento. «Le cose migliori di Gunnar – scrive Stefánsson nell’accorato ma equilibrato ritratto accluso al volume e tradotto da Silvia Cosimini – reggono egregiamente il paragone con le vette del percorso creativo di Haldór Laxness», che vinse il Nobel nel ’55 e con ciò oscurò la fama degli altri: ecco «una semplice verità di cui ci siamo dimenticati», scrive Stefánsson, che si adopera perché venga ristabilita la realtà dei fatti.

Se finisse qui, il progetto sarebbe comunque meritorio, ma Stefánsson fa un passo oltre: definisce, prima di tutto, la famiglia in cui inserirsi: «nessuno è un’isola in letteratura, e lo stesso tipo di stile si può trovare negli autori più disparati». Poi dichiara la sua poetica attraverso un libro altrui. E ce lo presenta così. Soggetto: «Un uomo di fronte alle forze della natura»; stile, ovvero modo in cui le parole impastano quel tema: «Un realismo onirico, una narrazione poetica». Ecco, poi, il succinto riassunto di Stefánsson: «un tale si smarrisce sugli altipiani desertici nel mese di dicembre insieme a un cane e a un montone mentre cerca un gregge, incappa in una bufera ma torna vivo in paese».

Stesso trattamento per Pan di Knut Hamsun e La morte a Venezia di Mann: «Un tale vaga per un bosco con un fucile e un cane, borbotta qualche frase sulla natura, si innamora di una donna e va a finire che si spara; un autore di mezza età si concede una pausa dai suoi scritti, va a Venezia, si invaghisce di un ragazzino, molla le redini della propria vita a muore». Conseguente dichiarazione di poetica: «E così ho già descritto il contenuto di tre libri, tre novelle, niente di appariscente, ma la trama non è mai fondamentale in un libro».

In effetti, Il pastore d’Islanda è un libro magnetico. Gunnarsson, islandese di nascita e di lingua ma emigrato a Copenaghen ragazzino, lo scrisse in danese (la versione di Maria Valeria D’Avino, già traduttrice di Hamsun, tra gli altri, ne resituisce alla perfezione poesia e intensità). La prima edizione fu tedesca, nel 1936, poi venne quella danese nel 1937 e l’islandese solo nel 1939, in diverse traduzioni, tra cui quella di Laxness e quella dello stesso Gunnarsson. La storia è quella del «vecchio» Bendikt – cinquantaquattro anni ai tempi in cui fu scritto il racconto – che ogni anno, prima di Natale, si avventura tra le montagna islandesi per mettere in salvo le pecore disperse. Ad accompagnarlo ci sono il cane Leó e il montone Roccia. «Da tre anni i tre erano inseparabili (…) con quella dimestichezza che forse è possibile solo tra specie animali molto diverse». Sono un trio di anime, prima ancora che tre corpi. Se un istinto attraversa le specie, questo – sembra dire Gunnarsson – è portare gli altri in salvo. Ci salveremo tutti insieme, o che non si salvi nessuno.

Guidato da questo istinto, più vicino alla pietà creaturale che alla retorica della bontà natalizia, il trio si avventura per i monti d’Islanda. Ma la natura non conosce pietà, e la natura islandese sembra più feroce di ogni altra. Il trio si perderà, la bufera cercherà di fare scempio di loro e delle pecore disperse: distrattamente, senza curarsi del fatto che dentro ogni bestia c’è una vita. La bufera di Gunnarsson è, per certi versi, quel che è il mare in Paradiso e inferno di Stefánsson. All’uomo non resta che la ricerca di un riparo. Che non provi a opporsi: chiedere pietà o perdono sono gesti non previsti.
Il pastore d’Islanda è un libro che ci fa scoprire due autori insieme: uno è morto più di quarant’anni fa, ed è probabile che altri suoi libri verranno tradotti. L’altro di anni ne ha cinquantaquattro, è l’autore islandese più amato in circolazione, e sembrerebbe avere superato il maestro. A dimostrazione del fatto che ogni autore porta dentro di sé altri autori, che finiranno per innervare le sue fibre più intime, ed è giusto dimostrarsi gratitudine, restituire quel che si è avuto con la faccia affondata tra le pagine.

Stefánsson non sarebbe lo stesso senza Gunnarsson, ma è vero anche il contrario. Ciò premesso, dice lo stesso Stefánsson, alla fine resta il libro, che è sempre un universo autosufficiente: «Quello che è importante è il mondo del romanzo, la creazione letteraria, e un libro va sempre letto alle sue condizioni, è contenuto in se stesso e in nient’altro».