Nel Sorpasso, il film italiano che 55 anni fa l’ha lanciato per sempre, è stato italiano per caso: « È come ‘ultimo della lista’ che Dino Risi m’ha scelto per il ruolo, diventato il mio logo d’attore. Doveva interpretarlo Jacques Perrin, altro francese già onnipresente nel vostro cinema. Le prime riprese, nelle strade vuote di Roma a Ferragosto, furono effettuate con la sua controfigura. Quando lui dovette rinunciare chiamarono me: semplicemente perché ero il più somigliante alla controfigura di Jacques Perrin».
Tutt’una rete di rughe, scavate da troppi dolori (la morte, a un anno, di Pauline, durante le riprese del Conformista, e la piaga, sempre aperta, dell’adorata Marie, massacrata di botte a 41 anni da Bertrand Cantat nel 2003), Jean-Louis Trintignant, l’attore più vezzeggiato e premiato del cinema europeo, a 87 anni si lascia andare ai ricordi del suo passato in pellicola. Con l’abituale ritrosia: « Su centotrenta titoli, di cui quasi un quinto italiani, ne salviamo una trentina? Troppi?».
Tra questi, comunque, molti italiani: dal primo, nel 1959, Un’estate violenta, con Eleonora Rossi Drago e Jacqueline Sassard, all’ultimo, nell’83, con Laura Morante, Colpire al cuore. Senza contare quelli in via di rivalutazione, come Il grande silenzio – in cui, a 38 anni, continuava a aver l’aria di ragazzo schivo e intimidito del Sorpasso – western-spaghetti di Sergio Corbucci al quale la Cinémathèque Française dedicherà nella nuova stagione una retrospettiva: « È l’unico western a non aver guadagnato neanche un pugno di dollari – ride Trintignant –. Il più domestico, il più ‘spaghetti’: girato sulle Alpi piene di neve. Occorreva stare attenti soprattutto al passaggio inatteso di sciatori. E poi si correva a cancellarne le impronte. La vera star era Klaus Kinski, arrivato da Roma in Limousine. Tutti noi non eravamo che peones… »
Trintignant, lei è il più italiano degli attori francesi, almeno per numero di film. E senza sciagurati ‘no’, il suo made in Italy sarebbe stato più imponente, vero ?
Purtroppo, ho dovuto rinunciare a C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, dove sarei stato il professore intellettuale, e a Casanova, non tra i migliori Fellini: non potevo impegnarmi per un anno o più, senza sapere quando e se l’avremmo girato. La  mia vita è piena di appuntamenti mancati, non solo nel cinema, e non solo in Italia. Quando Coppola mi ha cercato per Apocalypse Now, che mi avrebbe forse aperto una carriera in Usa, non ho avuto voglia di muovermi dalla Francia. Nemmeno quando Spielberg mi ha voluto per Incontri ravvicinati del terzo tipo, nel ruolo che poi è andato a François Truffaut.
Qualche rimorso ?
Certo. Soprattutto – la scelta poi caduta su Marlon Brando è stata, però, ottima – per L’ultimo tango a Parigi, dove avevo anche dato una mano a Bernardo Bertolucci nella sceneggiatura. Ma mia figlia Marie, allora bambina, già attenta lettrice degli script che ricevevo, mi aveva scongiurato di non girarlo: ‘Papà, a scuola le mie compagne non finiranno mai di prendermi in giro’. E io non ho mai fatto nulla nella vita che potesse dispiacere a mia figlia. Al «Conformista» aveva detto sì, dopo le prime resistenze. Perché ?
Il romanzo di Alberto Moravia mi aveva affascinato, ma il ruolo propostomi da Bernardo non mi piaceva. Gli ho scritto, esponendogli i miei dubbi e, insieme, ricordandogli il grande desiderio di girare con lui, che consideravo tra i registi più sconvolgenti del cinema italiano. Ci siamo visti e mi ha convinto che l’aspetto più interessante della sceneggiatura era tutto quanto era suggerito, il non-detto. È per questo che ho lavorato a tutto spiano. È probabilmente quel che ho fatto di meglio al cinema.
Dopo Bertolucci, Luigi Comencini sul set torinese di «La donna della domenica», nel ’75, con Marcello Mastroianni e Jacqueline Bisset…
Che bei momenti. Marcello, dei quattro ‘colonnelli’ della commedia all’italiana, era il più simpatico. Molto intelligente, non intellettuale. Gran seduttore, una bomba. Spariva dopo due bisbigli con una bellona e, in nemmeno un’ora, impresa compiuta. Eravamo due cocciuti sul set, entrambi a ronzare attorno a Jacqueline Bisset, che però s’eclissava subito a fine riprese: ‘Dopo le 22 non m’è mai successo nulla di interessante’. Forse una maliziosa provocazione.
Infine, l’incontro con Ettore Scola: tre film. Il primo, nel ’79, «La Terrazza», dove ritrova Stefania Sandrelli, da lei diretta poco prima in «Le Maître nageur».
Della Terrazza sono uno dei protagonisti: lo sceneggiatore in ambasce che deve scrivere, a tutti i costi, un film ‘che faccia ridere’ per il produttore-tiranno Ugo Tognazzi. La terrazza è un film-summa di Scola: l’ultimo atto, buffo e disperato, della fine d’un’epoca, interpretato dai più grandi attori della commedia all’italiana. Tra me e Ettore, già conosciuto come sceneggiatore nel Sorpasso, era nata una grande amicizia: mi chiamerà ancora per Passione d’amore e, in un ‘cameo’, come li chiamate voi, per La Nuit de Varennes, girato tra Italia e Francia. Sono il mercante di candele che alloggia Louis XVI quando è bloccato a Varennes: incontro inatteso, molto ‘all’italiana’, tra un semplice popolano afflitto dal mal di testa e un re che non è più che un fantoccio, di cui non vediamo che i piedi…
Scola, presidente onorario del Bif&st di Bari e di Annecy Cinéma, rimane il trait-d’union Italia-Francia. Per lei, chi è stato Scola?
Tutte le qualità insieme. Quando penso a lui, mi sento invaso da un’immensa tenerezza. Sono stato davvero fortunato a conoscere persone così formidabili. Il privilegio di noi attori è anche questo. Il mio ‘periodo italiano’ ha contato enormemente per me, nella professione e nella vita.
E tuttavia in Italia non ha mai messo radici. Perché ?
Non ho mai voluto intraprendere una carriera italiana. Tornavo ogni volta in Francia: da voi non ho mai interpretato due film di fila. Aver condiviso un gran successo mi consentiva di accettare altre parti senza troppo preoccuparmi dei risultati. Perciò ho subito non pochi inciampi.  Ciò spiega che non sia mai divenuto una star. Ho sempre accettato d’istinto, per simpatia, alternando film di genere e d’autore: western, commedie brillanti e, persino, thriller, come, nel ’68, La morte ha fatto l’uovo.
Com’è finito in questo Questi ?
Un giorno m’arriva un telegramma : ‘Giulio Questi ti vuole nel suo prossimo film, sei fortunato, è il più grande regista del mondo’, firmato Valerio Zurlini. Solo molto tempo dopo ho scoperto che era stato Giulio Questi a mandarmelo.
Che ha significato per lei l’Italia, che l’ha a lungo adottata, come mostra «Trintignant l’italien», il bel documentario presentato anni fa al Festival d’Annecy da Jean Gili?
Con il vostro Paese ho avuto un rapporto privilegiato. Valerio Zurlini, subito divenuto amico – non aveva che 5-6 anni più di me – è stato un fratello maggiore: ha voluto che abitassi da lui, a Roma, circondandomi delle sue confidenze. Era critico d’arte, molto colto, raffinato. La mia Dolce Vita non è stata però Via Veneto, ma la trattoria ‘da Otello’, dove ci si ritrovava tutti, attori, registi, sceneggiatori. C’era una vitalità che in Francia non avevamo neanche durante la Nouvelle Vague. Spesso i film nascevano dalle battute, dalle chiacchiere, che passavano di tavolo in tavolo. Una volta, mentre si scherzava sul colpo finito male nel Rififi di Dassin, al commento ‘Noi ci saremmo fatti una spaghettata!’, Mario Monicelli s’è alzato di botto: ‘Questa, la prendo io!’. Era l’idea dei Soliti ignoti.