Nel marzo 1972 al convegno Critica in atto, curato da Achille Bonito Oliva a Roma nella sede degli Incontri Internazionali d’Arte, fondamentale momento in cui la critica d’arte italiana cerca di definire il suo ruolo all’interno del sistema dell’arte, Giulio Carlo Argan chiude così il suo intervento: «Dirò che la mia situazione nel presente frangente della cultura è questa: o posso fare storia, perché il fenomeno si dà come fatto che esige di essere interpretato, perché pone un problema di valore; o non posso, e allora non ho che due vie: o quella del profeta che fantastica sul futuro, o quella dell’archeologo che indaga il passato. Messo a questo bivio, scelgo la via dell’archeologo». Queste parole sanciscono l’ormai insanabile separazione avvenuta tra la critica di formazione accademica, convinta del «carattere intrinsecamente storico dei fatti artistici», e la critica cosiddetta militante, che già dalla fine del decennio precedente aveva volontariamente deposto ogni pretesa di esegesi dell’opera d’arte e stava testando nuove forme di operatività, in sintonia con le teorie d’oltreoceano Against Interpretation.
Tommaso Trini, invitato anche lui da Bonito Oliva a Palazzo Taverna, spiega molto bene come la necessità di un diverso approccio all’opera sia intrinsecamente conseguente al nuovo modo di operare degli artisti. «Oggi siamo sempre più confrontati con opere che hanno smesso di offrirsi a una pura e semplice contemplazione». Secondo Trini si tratta di opere che non si presentano più «come attività progettanti bensì come atti riduttivi di ex-perienze, si sviluppano nell’immediatezza del rapporto mondano o dell’interazione culturale» e sono caratterizzate da una «interna frammentarietà», da una «mobilità di situazioni», da una «intercambiabilità di strumenti». Sempre più spesso il tempo e lo spazio dell’opera coincidono quindi con quelli dell’esistenza. Inoltre, i nuovi linguaggi non si limitano ad accogliere elementi di rottura rispetto al contesto cui si riferiscono, come in tutta l’arte precedente, ma vivono dentro la crisi stessa di questo contesto, nelle «crepe di una cultura che implode negli interstizi dei generi, dei metodi e dei media». Non potendosi più esercitare sulla ricostruzione di ambiti e di evoluzioni lessicali, conclude Trini, «al critico così come allo spettatore resta aperto solo l’improbabile compito di rendere conto di sé di fronte all’arte». La critica tende allora «a farsi creativa essa stessa», com’era avvenuto a Roma già alla fine degli anni cinquanta con Emilio Villa, Cesare Vivaldi e Gabriella Drudi, oppure ad annullarsi nella neutralità del discorso dell’artista, come nel caso del radicale Autoritratto di Carla Lonzi, o nella sistematica raccolta e riproposizione di informazioni della «critica-a-critica» proposta da Germano Celant nel 1970.
Una terza via possibile è quella percorsa proprio da Tommaso Trini, di cui oggi viene pubblicata un’importante antologia di testi curata da Luca Cerizza e intitolata Mezzo secolo di arte intera Scritti 1964-2014 (Johan & Levi Editore, pp. 354, euro 23,00). Trini ha ingaggiato con l’arte, scrive Cerizza, «una forma assidua e appassionata di dialogo attraverso lo strumento della scrittura». La sua scrittura ha, infatti, la ricchezza della testimonianza diretta e l’andamento veloce del flusso di coscienza stimolato dall’incontro con le opere, ma al tempo stesso non rinuncia a mettere in relazione queste informazioni tra loro, producendo senso. Un senso che si arricchisce di riferimenti letterari, di interessanti considerazioni antropologiche e di particolari collegamenti con ambiti di interesse inusuali, eppure fecondi, come sono da sempre per Trini quelli della cosmologia, delle civiltà primordiali, della fantascienza, dell’astrofisica e della cibernetica.
La prima parte del volume raccoglie interventi monografici: a partire da quelli redatti negli anni sessanta e settanta su Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio, Alighiero Boetti, Piero Manzoni, Giulio Paolini, Vicenzo Agnetti e Gianfranco Baruchello, pubblicati in gran parte su «Data», la rivista che Trini fonda a Milano nel 1971 e che diventa uno dei principali strumenti di documentazione sull’arte nazionale e internazionale di quegli anni; fino a quelli più recenti su Piero Gilardi, Ugo Mulas, Marisa Merz, Luciano Fabro e Ettore Spalletti. La seconda parte del libro include, invece, contributi più generali legati al dibattito critico, insieme ad alcune importanti interviste, come quella fatta a Lucio Fontana nel luglio del 1968, pochi mesi prima della sua scomparsa, oggi riproposta nella versione integrale finora inedita.
Trini scrive il suo primo testo critico a Parigi, dove si era trasferito a studiare lingua e letteratura francese, per una mostra di Pistoletto alla galleria di Ileana Sonnabend nel 1964. Tornato in Italia nel 1966 dirige per qualche stagione la galleria milanese di Gian Enzo Sperone e inizia a collaborare con «Domus». È quello il periodo in cui scrive testi fondamentali come, ad esempio, Nuovo alfabeto per corpo e materia, pubblicato proprio sulle pagine di «Domus» nel gennaio del 1969 e inserito da Harald Szeemann nel catalogo dell’importante mostra When Attitudes Become Form da lui curata alla Kunsthalle di Berna quello stesso anno. In questo testo Trini analizza le principali tendenze emerse allora sulla scena artistica, Arte Povera, Antiform, Process Art e Conceptual Art. Ricerche che sono tutte caratterizzate da quella che definisce un «tregua linguistica», perché «vanno oltre qualsiasi specifico linguistico, sia spaziale, percettivo, plastico, che simbolico o metaforico». Sono tutte tese «verso il presente», dove l’opera vive in simbiosi con «la presenza e la partecipazione di un pubblico attore tra cui sovente agisce l’artista stesso». Molte di queste opere «durano una mostra, il tempo di un’alchimia. La materia evapora e diventa un’operazione, un rapporto».
È in questo rapporto che Trini prefigura, già nel 1969, una prospettiva feconda per l’arte e per gli artisti «contro l’idea di dominio che il pensiero occidentale ha sempre esercitato» sul mondo, «come idea di conquista scientifica». «L’arte può essere un crea cura, una forma per creare cure che in qualche modo sovvertano la latitante, sempre più labile e strappata, affettività tra gli umani», ha detto in una recente conferenza tenuta in occasione della mostra Roma. Anni ’70, curata da Daniela Lancioni al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Come Alberto Boatto, a cui ha fatto diretto riferimento in quell’occasione e a cui lo legano, oltre ad alcune esperienze comuni, un’ampiezza di vedute proficuamente fuori dall’accademia, Trini riconosce solo all’arte, che opera nella consapevolezza delle interazioni tra le presenze e dell’invisibile che si annida nei loro interstizi, la capacità di rimediare a quella perdita d’esperienza causata dalla pervasività dello «sguardo dal di fuori» che ci restituisce l’onnipresente occhio tecnologico nel mondo postmoderno.