Vasto affresco epico-picaresco che prende le mosse dalla prima guerra mondiale, per poi concentrarsi sulla desolazione del dopoguerra, Ci rivediamo lassù di Pierre Lemaitre (Mondadori, traduzione di Stefania Ricciardi, pp. 454, euro 17,50) concentra la sua azione tra il novembre del 1918 e il marzo del 1920, esibendo – almeno in apparenza – l’andamento di una narrazione classica: unisce Storia e storie in un disegno ampio e complesso come quelli di Victor Hugo; si snoda come un racconto d’avventura alla Dumas; offre un ritratto della società parigina del tempo che si potrebbe dire balzachiano per ricchezza di dettagli e profondità di osservazione. Il romanzo, dal contenuto alquanto politicamente scorretto, ha vinto prima il premio Goncourt, poi è stato eletto libro dell’anno dalla rivista Lire, proprio mentre in Francia – era la fine dello scorso anno – si cominiciava a celebrare il centenario della prima guerra mondiale allo scopo di preservarne non solo la memoria ma anche il retaggio culturale.

Malgrado la mole cospicua, Ci rivediamo lassù tiene legati alle sue pagine grazie all’abilità di Lemaitre nel mantenere la suspense e nel costruire colpi di scena che rimandano alla narrativa poliziesca. E, in effetti, l’autore francese ha alle spalle, prima di questa prova decisamente più considerevole, una vasta esperienza e un notevole successo come giallista: i suoi thriller Alex (edito in Italia da Mondadori) e Lavoro a mano armata (Fazi), gli hanno guadagnato, sul Times, l’etichetta di «nuovo Stieg Larsson».

Ci rivediamo lassù è un romanzo nazional-popolare nel senso gramsciano, e dunque positivo del termine: racconta la storia di due reduci che, trovandosi alla deriva nella Parigi del primo dopoguerra, ordiscono una colossale truffa, facendosi beffe in modo sacrilego di amor patrio e culto della memoria. Alla loro vicenda si intreccia quella dell’uomo che, per ambizione e volontà di potere, li ha mandati al massacro proprio alla fine della guerra, il tenente d’Aulnay-Pradelle, spregevole rampollo di una nobile famiglia decaduta, che non esita, durante il conflitto, a uccidere a sangue freddo membri della sua truppa per il proprio tornaconto e, in tempo di pace, a speculare senza scrupoli sulla costruzione di necropoli militari.

Nel romanzo, a una prima parte febbrile, ambientata sul terreno di combattimento e nei maleodoranti ospedali da campo, fa seguito la devastazione del dopoguerra: il ritmo narrativo si fa più pacato, a suggerire la stanchezza e la depressione degli ex combattenti cui è negato ritrovare un posto nella società borghese. Già dal fulminante inizio – «Chi pensava che quella guerra sarebbe finita presto era già morto da molto tempo. In guerra, per l’appunto» – Lemaitre chiarisce la sua posizione non agiografica sul conflitto. Non gli interessa esaltare gli atti di eroismo: nella sua storia, chi viene decorato al valor militare è il perfido Pradelle, mentre a Édouard Péricourt, uscito sfigurato dal conflitto, non è concessa neppure una piccola pensione. «Tentativo di omicidio esteso a un continente», la guerra è, per il giallista Lemaitre, occasione per un’indagine serrata su tutte le forme dell’umana crudeltà e per la messa in scena di una vendetta che si attua a ritmo incalzante nel frenetico epilogo saturo di colpi di scena, in cui le due storie parallele e le due truffe che ne sono alla base vengono a intrecciarsi, con risultati inattesi e sorprendenti.

«Si crede di morire per la patria, e si muore per gli industriali», tuonava Anatole France nel luglio di quel 1922 in cui scoppiò in Francia lo «scandalo delle esumazioni militari», da cui traggono spunto le malversazioni attribuite a d’Aulnay-Pradelle. Ci rivediamo lassù mostra in quale modo cinico e spregiudicato il capitalismo tragga profitto dalla guerra, proprio mentre coloro che dalla carneficina sono usciti distrutti nel corpo e nello spirito, invece di essere aiutati a reinserirsi nella società, sono ricompensati con cinquantadue franchi o un cappotto di infima qualità e presto dimenticati.

Parola d’ordine è «archiviare, finalmente, quella guerra tra i ricordi peggiori»: non per caso, Lemaitre nota con amara ironia che «L’intero paese era colto da una frenesia commemorativa in favore dei morti proporzionale alla repulsione nei confronti dei superstiti». Così, se da un lato non stupisce che uno dei due protagonisti sia un uomo senza volto, cui una scheggia di granata ha infranto la mandibola, personificazione emblematica del reduce cui la guerra ha tolto ogni identità, dall’altro lato è facile riscontrare nella descrizione della Francia postbellica più di un elemento in comune con la realtà odierna, un sistema che protegge pochi privilegiati, dove una minoranza esigua detiene ricchezza e potere e, escludendo gran parte della popolazione, produce emarginazione e miseria.

La truffa congegnata dai due reduci è il prodotto di quella «inventiva geniale» che i sopravvissuti devono sviluppare per cavarsela in tempo di pace, dimostrazione macroscopica del fatto che – come osserva ancora Lemaitre con la stessa acre ironia – «il paese disponeva di ex combattenti molto creativi, era un peccato che la maggior parte fosse disoccupata». Rubando denaro «per avere i mezzi per rubarne di più», il fragile Albert, tra sensi di colpa e crisi di panico, asseconda la ritrovata euforia di Édouard, eccentrico artista di notevole talento ridotto a larva umana dalla guerra e, con quella «provocazione inaudita», lo aiuta «a riappropriarsi di ciò che era sempre stato e che aveva rischiato di perdere». Estroso, geniale, ma anche ribelle e provocatore, Édouard, omosessuale, è figura di quella diversità che il mondo borghese – a cominciare dal suo ricchissimo padre – rifiuta. Albert, di umile estrazione, timido e goffo, è il suo esatto opposto. Se il primo, cui la guerra ha sottratto, oltre a un volto affascinante, un sicuro successo nel mondo dell’arte, si esalta nella realizzazione della truffa a tal punto da arrivare a concepirla niente più che come un «capolavoro di comicità», il secondo, il cui unico sogno sarebbe recuperare il posto occupato in banca prima della chiamata alle armi, vive l’avventura tra sensi di colpa, incubi e angosce d’ogni sorta. Mossi da una rabbia «che non si esprimeva allo stesso modo», con la loro truffa si fanno beffe, l’uno, il contabile, del mondo che lo rigetta, e l’altro, l’artista, della stessa morte.

Una morte che percorre tutto il romanzo, a cominciare dal titolo, tratto dall’ultima lettera scritta alla moglie da Jean Blanchard, un soldato ingiustamente fucilato per tradimento nel 1914 (e poi riabilitato nel 1921). Tuttavia, qui non si tratta solo della morte in guerra, dei feriti che si spengono tra atroci dolori nell’ospedale militare, dei cadaveri di cui è cosparso il campo di battaglia o delle salme malamente esumate dagli scagnozzi di Pradelle. C’è anche una morte meno appariscente, ma più inesorabile: quella che si riflette «a riaprire le ferite», nel viso straziato di Édouard, da lui nascosta sotto un serie di maschere fantasiose, dai colori sgargianti e dalle fattezze animalesche o surreali, dietro le quali fa echeggiare la sua risata terrificante, dapprima «gutturale, abbastanza femminile, acuta, una vera risata con dei tremolii, delle vibrazioni», poi, col procedere del tempo, sempre più forte, fino a divenire «esplosiva, crivellata di vibrati, una di quelle risate che restano nell’aria dopo che si sono spente».

È la risata di chi svela le ipocrisie del potere, di chi denuncia con humour nero il capitalismo che lucra sul dolore, di chi – andando controcorrente in tempo di celebrazioni – stabilisce un parallelo tra le miserie del primo dopoguerra e quelle della nostra odierna crisi. Quasi a illustrare la trasposizione letterale di un famoso slogan attribuito a Bakunin, al termine di questo romanzo al cui centro stano monumenti funebri e esumazioni di cadaveri, la fantasia distruggerà il potere e sarà una risata che lo seppellirà.