Fino al 28 maggio, alla Triennale a Milano (primo piano), per la cura di Lucia Aspesi, c’è la possibilità di vedere Phantoms, prima mostra in Italia del filmmaker e artista britannico Ben Rivers, uno dei nomi più considerati fra gli autori che si muovono tra cinema e diversi sistemi dell’arte, creando percorsi di immagini dove passione per la documentazione e attitudine alla finzione coesistono.
L’allestimento è minimale, su due schermi si possono osservare tre brevi film dello stesso Rivers. All’ingresso c’è The Shape of Things (2016). Riprendendo la scheda tecnica della mostra, «immagini di artefatti da collezioni etnologiche» (da Harvard), cioè una scultura ermafrodita bizantina e una brocca antropomorfa cinese, «accompagnate dalla voce del poeta americano William Bronk che legge la sua composizione At Tikal» (sul desiderio di creare, distruggere, rigenerare immagini).
Sull’altro schermo, invece, Phantoms of a Libertine (2012), «in parte ispirato da A Voyage on the North Sea di Marcel Broodthaers – una possibile biografia di un uomo, un insieme di memorie misteriose attraverso elementi di un diario i viaggio –, e poi Things (2014), dove Rivers filma il proprio «ambiente domestico», una specie di itinerario in quattro parti («stagioni»), dentro uno spazio composto da «frammenti di libri, immagini, oggetti e suoni raccolti negli anni» con aperture tanto all’immaginazione quanto a segni di memoria collettiva (questo film si era già visto a Milano al festival Filmmaker 2014, grazie al lavoro di Tommaso Isabella).
UTOPIE DELLA PRESENZA
Cosa suggerisce il lavoro di Rivers? Alla prima impressione si potrebbe dire così, e cioè l’occasione di una lettura di determinati meccanismi narrativi, nello specifico ci si può soffermare sul «chi parla», «chi dice o funge da io».
I tre film presentano o attivano svolgimenti in grado di porre la «figura» del narratore – in tre delle sue manifestazioni fra le più canoniche nelle strategie relative al racconto audiovisivo, almeno fino a questi ultimi anni – come parte delle loro «trame», non limitando il suo gioco alla mera funzione illustrativa. La voce fuori campo di The Shape of Things, per esempio, non spiega in sé nulla di quanto si vede, non entra in relazione diretta ma semmai allusiva o analogica, aggiungendosi alle opere come – magari – una delle loro forme possibili.
Cos’è invece il soggetto di Phantoms of a Libertine, idealmente protagonista della propria storia (data la fonte del diario di viaggio), se non una serie di aspetti di una persona che «non prendono corpo» e che risaltano l’ambiguità di una vita immaginaria, tra non-finito e variazioni? Mentre Things, alla fine, mostra come anche quando il narratore si dovrebbe identificare con l’autore, qualcosa può sempre non tornare e il «controllo», quindi, mancare – e qui è il contesto, per esempio, a fungere come elemento di spaesamento.
A queste tre versioni di una idea di presenza «utopica», cioè che non ha luogo ma lascia tracce – utopia dell’immagine; utopia del soggetto; utopia dell’oggetto (nell’ordine di come si sono presentati i film) – si può aggiungere anche una annotazione sull’uso dell’antropologia in relazione alla narrazione.
ETNO-SURREALISMO
Il surrealismo etnografico è stato un tratto molto interessante di certa cultura francese tra le due guerre mondiali. Da qui, senza dilungarsi troppo (per un approfondimento c’è un classico, I frutti puri impazziscono di James Clifford), se si va alla creazione di immagini tra cinema e arte, un continuatore di quella esperienza è sicuramente stato Chris Marker, e oggi il lavoro di un Ben Rivers non è lontanissimo da quei mondi, a partire per esempio dal tema in comune nei tre film, quello della collezione – tra l’altro, altro argomento trattato da Clifford nel suo libro.
In mostra, le immagini degli artefatti nel primo lavoro, il diario di viaggio nel secondo e la funzione dell’osservazione nel terzo sono sicuramente tre elementi che in qualche modo rimandano a quella che si potrebbe chiamare la «scientificità» della disciplina antropologica, ma è poi come Rivers tratta questi elementi a modificare la percezione, a rendere il tutto molto più sfumato e, appunto, incline a quel modo di intendere culture altre come proprie fonti, la costruzione dell’io come fiction, gli ambienti familiari come altrove, modo che per alcuni anni è stato proprio il «mantra» di gente come Roger Caillois, oppure Michel Leiris (per fare due nomi).
Se si prende per buono un tale riferimento come «quadro culturale», quello che Phantoms di certo indica è come il filmmaker e artista britannico sia qualcuno in grado di mettere in comunicazione tra loro materiali di campi differenti (oggetti, documenti, concezioni, estetiche), e così sviluppare un gusto per una narrazione di questi che contempli limiti – di forma, di senso – come possibilità che fanno testo, possibilità che liberano potenzialità espressive, immagini del pensiero, fantasmi.

 

IL LIBRO

Al di là dell’occasione che fornisce la Triennale con la mostra «Phantoms», per approfondire l’opera di Ben Rivers c’è da poco in circolazione un altro buon strumento, e cioè un libro: Ways of Worldmaking, a cura di Bettina Steinbrügge. Si tratta di una pubblicazione con un apparato visivo ricco, diversi contributi – fra gli autori Ed Halter e Andréa Picard – e tutti in lingua inglese (editore Mousse Publishing, 34 euro).
Per chi scrive, in quello che sembra il classico stile Mousse – tra compendio come intenzione e la forma catalogo come esito – ci si trova di fronte ad una pubblicazione in grado di indicare, in modo rapsodico e poetico, due possibili linee-guida del lavoro di questo artista e filmmaker inglese. Forzando un po’ le cose: la sottolineatura di una importante fonte di riferimento della sua poetica e la formulazione di una propria idea di cinema.
In merito alle tracce per arrivare alla «fonte» si possono leggere le schede dei film di Rivers presenti nel libro o certe trascrizioni riconducibili a suoi progetti, testi sempre da lui scritti. In molti di questi passaggi viene fuori un intendimento che sembra avere affinità con alcune teorizzazioni di certa antropologia contemporanea legata all’arte – a sostegno di questo, anche, molti interventi critici del volume in cui, per esempio, si sottolinea la possibilità di leggere il suo metodo in relazione a modi della pratica etnografica.
Invece, in merito all’idea di cinema – su cui in un certo senso fa leva la struttura di Ways of Worldmaking – si possono tenere in considerazione i testi di Halter e Picard e parlare di costruzione di mondi (tra l’altro, il titolo del libro viene da una dichiarazione dello stesso Rivers). Troppo generica? Forse. Ma se è così allora, per evitare incomprensioni – e per necessità di sintesi – si potrebbe evocare «il mondo diventato favola» di Nietzsche, come premessa e conseguenza.
Le immagini di Rivers sembrano vivere di questo «trapasso».