Il Trieste Film Festival 32, edizione online (21-30 gennaio) diretto da Nicoletta Romeo e Fabrizio Grosoli, storica manifestazione specializzata nella produzione dell’Europa centrale, orientale, balcanica, ha proposto un programma di film di una nuova generazione di cineasti (oltre ad alcune firme consolidate come Cristi Puiu, Sharunas Bartas). È sempre stato interessante vedere questi film in sequenza e non dispersi nei vari festival, identificare un certo numero di costanti. Prima fra tutte il racconto contraddistinto da un post realismo che sottolinea le problematiche presenti nei diversi paesi, facendo a meno di tentazioni astratte o allusive. Per far meglio risaltare i contrasti sociali si scelgono spesso le ambientazioni campestri più isolate come nel film romeno Campania (Berliner, titolo internazionale) di Marian Crisan (classe 1976) che attinge a un umorismo sottile nel corso di una campagna elettorale in un piccolo villaggio, dove i protagonisti sono un contadino a bordo del suo trattore (iconico veicolo dei tempi passati) e il ministro in lizza per le europee che, restato in panne sfrutta la situazione per farsi ospitare per parecchi giorni, farsi fotografare accanto alla gente comune e raccogliere più voti possibile, ad ogni costo.

Anche nell’esordio di More Raça (classe 1992) Galaktica Andromedes (Kosovo 2019) i politici hanno un loro spazio, ma visti da lontano, con le rassicurazioni lanciate dalla tv, in questo simili in tutta Europa («compiremo grandi passi nel futuro»), mentre il protagonista va sempre più a fondo, così come il tessuto sociale che lo circonda, lo riscatta la sua ostinata gentilezza d’animo così in contrasto con la ferocia dei tempi.
Nel bosniaco Tako Da Ne Ostane Ziva (Così lei non vive più) di Faruk Loncarevic, a parte insostenibili scene di femminicidio, la classe operaia è ripresa in scenette frontali alternate alle notizie sulla condanna a 40 anni per Radovic, dove l’uccisione della donna fa da controcampo al genocidio.

Un’altra costante di questi film è la messa in scena dell’orgoglio nazionale, anche quando proprio non sarebbe il caso come in Strah (Paura) di Ivaylo Hristov, dove i paesani cantano in coro l’inno nazionale «siamo bulgari, siamo eroi» mentre meditano di dare fuoco alla casa della donna che ha accolto un africano che cerca rifugio nel suo viaggio verso la Germania. Parecchi film sono attraversati, in primo piano o sullo sfondo, di migranti che tentano di passare il confine, ma in questo caso l’ignoranza e il razzismo si affiancano al maschilismo, il tutto ripreso con una distanza da commedia amara un po’ sgangherata.

Si percepisce un certo orgoglio nazionale anche nel delineare le capacità incrollabili della protagonista di Jak Najdalej Stad (Non piango mai) del polacco Piotr Domalewski (classe ’83) classico racconto di formazione dove una diciassettenne deve andare fino in Irlanda a riprendere le spoglie del padre operaio deceduto sul lavoro e cavarsela da sola senza soldi ma con una ferrea determinazione che risalta ancora di più se messa a confronto con gli altri personaggi di varie nazionalità poco raccomandabili incrociati sul posto.

Si distacca dagli altri film in concorso Father del serbo Sdran Golubovic (che ha già fatto la sua comparsa nelle nostre top ten di fine anno) presentato alla Berlinale 2020 nella sezione Panorama, dove non mancano elementi di situazioni sociali presenti in quasi tutti gli altri film come la disoccupazione senza via d’uscita: gli assistenti sociali gli tolgono i figli perché non ha più un lavoro fisso e la moglie ha cercato di darsi fuoco per la disperazione, ma soprattutto perché lucrano sull’affido. L’uso magnifico del vuoto e del silenzio dona al film una suspense continua, mentre seguiamo passo dopo passo i cinque giorni di cammino a piedi dell’uomo (interpretato da Goran Bogdan) dalla sperduta Priboj a Belgrado per presentare al ministro il suo ricorso. I piccoli avvenimenti che si trasformano in elegia, la messa in scena del piccolo potere regolato dal denaro e dell’autorevole ministero regolato dalle parole, lo scenario del passato (una Dom Kultura, una casa della cultura ora abbandonata e diroccata), la determinazione di un uomo che non si lascia intimorire dalle parole, ma va dritto allo scopo, la grande quantità di elementi che riempiono il grande vuoto lo rendono notevole. Il regista ha già una fama internazionale, nominato agli Oscar per Klopka (La trappola, 2007), vincitore del premio speciale della giuria al Sundance con Krugovi (Circles).

I riferimenti ai tempi passati, mentre sono nella maggior parte dei film appena accennati, sono centrali per alcuni registi della generazione più matura, come per Andrej Smirnov (classe 1941) in Francuz (Un francese) ambientato in una Mosca al limite del 20° Congresso non ancora digerito, dove uno studente francese gauchiste di origini russe si trova per uno scambio culturale. Nel bianco e nero dei film anni ’60, con tutto il panorama culturale underground degno di un documentario, il film sembra alla ricerca di una autentica radice più profonda, mettendo in campo anche troppo materiale, come per un regolamento di conti (viene in mente per contrasto il sobrio testamento di Wajda). Così il film di Sharunas Bartas Sutemose (Nel crepuscolo) torna alla Lituania del 1948, un periodo tanto drammatico quanto confuso, due elementi che nelle mani del regista si ricompongono con cristallina evidenza, la lotta impari dello sparuto gruppo di partigiani che devono contrastare invano dalla postazione nella foresta l’avanzata dei sovietici impegnati nella campagna di collettivizzazione forzata delle terre. Un cinema, nutrito di cultura letteraria, pittorica, cinematografica, musicale che riesce a tenere insieme un mondo che si sta sgretolando inevitabilmente, dove la luce si fa materia incandescente. Il protagonista ci appare come un Ivan adolescente tra i partigiani che intonano Viburno Rosso aspettando il loro destino arrivare dalla sponda opposta.

L’ interesse per i materiali di archivio negli paesi del post comunismo ha un valore di supporto al saggio politico come in Antigona – Come osiamo dello sloveno Jani Sever accompagnato dagli interventi di Slavoj Zizek, come indica il titolo.

Gli oscuri annidi Ceaucescu sono rivisitati in Tipografic Majuscul (A lettere maiuscole) di Radu Jude, regista romeno già premiato con i suoi primi film a Berlino e Locarno (questo era al Forum): realizzato con diverse tecniche di montaggio produce un mix esplosivo a partire da una pièce teatrale di Gianina Carbonariu, da materiali d’archivio selezionati tra le parate ufficiali e programmi televisivi al servizio del regime. Porta alla ribalta un eroe di trent’anni fa, un liceale che con un gessetto scrive su una recinzione «Vogliamo giustizia e libertà» dando il via a una complessa e assurda indagine della Securitate, iniziata nell’81 con il dossier «Indagine Pannello» fornito di due agenti divisi in due turni più un cane lupo specializzato nel seguire le piste, grafologi e microspie inserite di nascosto nell’appartamento dell’indiziato. Di umorismo raggelante, lo paragonammo al giocondo racconto di un compagno marxista leninista che nel ’68 era stato fermato in una piccola città del sud perché il questore aveva riconosciuto la sua scrittura sul muro.