Mauro Covacich supera il concetto di autobiografia esplodendolo nella narrazione divertita quanto inquieta de La città interiore (La Nave di Teseo, pp. 234, euro 17).

Capace di cogliere il senso e la traiettoria storica di una comunità come di un’intimità, Covacich non ha bisogno di attraversare costruzioni retoriche o dì avvilupparsi all’interno di formule narrative sperimentali.

QUI A CASA SUA, nel racconto di Trieste, tutto diviene piano e regolare, compresa la trasversalità di una Storia che bussa con il fragore di un Novecento tragico e ambiguo. La città interiore diviene così il ritorno di uno scrittore che da casa non solo non è mai andato via, ma nemmeno mai potrebbe.

TALI E COMPLESSI sono i legami che rendono impossibile il solo concetto di fuga che lo sguardo di Covacich si fa sbieco, contorto alla ragione, eppure luminoso rispetto al racconto che attraversa a ritroso le radici riconoscendole però non solo come tali, ma come elemento vitale e contemporaneo alla propria esistenza.
Avviene così che la sua infanzia è quella del padre, la memoria di un’amico è la sua, il carcere e il lager della Risiera di San Sabba divengono le ferite pulsanti del proprio corpo.
Un racconto fiume che coinvolge figure storiche quanto intime della cultura italiana e dell’epica familiare qui affabilmente intrecciate in un connubio che libera la sua tipicità e mostra un insolito e imprevedibile virtuosismo.

IL TRAGITTO PERCORSO è quello di una storia politica e culturale che si fa elemento di coesione e di comunità. Trieste prende vita grazie a una narrazione pura che ritrova il gusto dello sguardo gentile, ma non certo pietoso. Uno sguardo aperto, ma capace di vedere e indicare senza pudore alcuno. Una visione di Trieste che sale direttamente dalle biografie aggrovigliate degli uomini e che fa di quei rami il trampolino per un ulteriore balzo verso la propria esistenza come verso quella di chi, tra le pagine del libro, ritrova nomi e luoghi di una storia non contenibile in una sola città, per la sua atipicità di vette e spigolature rare che hanno saputo – nella tragedia – definire un orizzonte di senso oltre l’ovvia linea mediana della Storia.

LE VICENDE sono quelle del quasi dimenticato – per non dire rimosso – Pier Antonio Quarantotti Gambini, del compositore errante Antonio Bibalo e poi fino a Saba e a Joyce, e ancora Boris Pahor e Claudio Magris. Mauro Covacich lega il tutto dando luce e contrasto alle vicende di una famiglia (la sua) e di uno scrittore (sempre lui) ora bambino, ora studente universitario, ora figlio adulto nuovamente a casa della madre tra vecchi bonari litigi e piccole cure quotidiane.

L’EPICA STORICA diviene ne La città interiore uno strumento di ricerca, una necessità di verità utile per dare forma e senso a una levità delle ombre, nell’intraducibilità dei gesti e dei ricordi che nel caso affiorano come dal nulla.
Un racconto tragico e gioioso di un tempo che vale molte esistenze e parecchi malanni e disavventure, capace però di restituire alla dignità un corpo vivo e privo di ogni retorica.
Nessun culto della persona e tanto meno della memoria, ma il gioco divertito di un passato che ritorna e bussa tra birignao e cachinni improvvisi e tra verità che si svelano al solo scopo di mostrare nuovi misteri.

MAURO COVACICH, in questo suo libro, con cura e solerzia affronta così l’ordito di un mondo che ci appartiene proprio per la sua scomparsa e lo fa con una scrittura che indaga con serrata tranquillità anche gli ambiti più duri restituendo la misura, la giusta distanza dalle vite che non sono la nostra, ma che in un certo senso ci appartengono o in ogni caso a cui apparteniamo.