Come una possibile risposta di complessità culturale di fronte a una città che ha espresso il peggio di sé in fatto di accoglienza, antieuropeismo, negazionismo, il festival di Trieste 33a edizione allarga la sua attenzione come ogni anno oltre i confini orientali e guarda a quei paesi dell’est Europa che negli anni ha contribuito a far conoscere, dove si sono avvicendati maestri di cinema e linguaggi di straordinario interesse.

Quest’anno il festival si svolge in presenza dal 22 al 27 gennaio (e dal 26 al 30 online su Mymovies), in tre sale dove è stato distribuito il ricchissimo programma, quasi una sfida alla tendenza di altri festival internazionali che hanno comunicato drastici tagli, da Berlino a Rotterdam.

Film di apertura già presentato a Cannes è Evolution di Kornél Mundruczó che sarà nelle sale dal 27 gennaio con il titolo Quel giorno tu sarai, storia una famiglia che attraverso tre generazioni si confronta con l’eredità della Shoah. Al regista verrà assegnato il premio «Eastern Star Award» come personalità del mondo del cinema che ha gettato un ponte tra l’Est e l’Ovest. Film di chiusura un altro film ungherese, come a voler sottolineare la vitalità di questa cinematografia, «La storia di mia moglie» Ildikó Enyedi, presentato a Cannes.

«Il fil rouge del festival, dice Fabrizio Grosoli direttore artistico della manifestazione con Nicoletta Romeo, lo vedrei rappresentato da un cinema giovane, sopratutto fatto da donne, che in questo momento sono il 20% dei registi in Europa, mentre nel nostro programma arrivano al 50% nel concorso e in tutte le altre sezioni». Registe saranno le protagoniste della sezione «Wild Roses – registe in Europa» dedicata quest’anno alla Georgia dopo il bel programma dello scorso anno dedicato alla Polonia».

E da scoprire sono anche le tre esordienti in programma dal Kosovo, un paese «a riconoscimento limitato». Delle tre sale in cui avrà luogo il festival il Politeama Rossetti ospiterà il concorso internazionale, i grandi eventi, la sezione Fuori dagli Sche(r)mi, il concorso cortometraggi; il cinema Ambasciatori ospiterà i documentari (selezionati da Fabrizio Grosoli e Giuseppe Gariazzo), la sezione Art and Sound e le opere che partecipano al Premio Corso Salani dedicato al cinema italiano indipendente. Il tradizionale teatro Miela accoglie una sezione speciale dedicata ai bambini, il focus delle registe georgiane, la selezione dei documentari russi più interessanti secondo regista russo Vitalij Manskij in esilio a Riga in Lettonia, compreso il suo Gorbaciov Eden e l’omaggio che il festival dedica alla regista bosniaca Vesna Ljubic.

I film
Georgia, il paradiso delle leggende, luogo di vacanze preferito dai sovietici, oggi con vocazione europea anche se non fa ancora parte dell’unione. È stato il paese che ha contribuito in maniera decisiva alla cinematografia dell’Unione Sovietica con nomi come Chiaureli, Abuladze, Iosseliani, Shengelaia, una cinematografia famosa per le commedie, un genere che periodicamente scompariva, e poi riemergeva. E così sembra essere anche oggi: nel focus dedicato alle registe georgiane si può dire che l’arguzia sia rimasta intatta, ma si fa largo attraverso un realismo non troppo cupo pur in situazioni difficili create dalla guerra e dal dopoguerra, dallo spaesamento dell’indipendenza gettata in braccio al neoliberalismo. Una nuova folta generazione di cineasti soprattutto negli ultimi anni si è fatta conoscere ed è stata premiata nei festival internazionali, come nel caso dei film in programma, registe la cui formazione è in genere completata a Londra, a Parigi, in Germania o in Svizzera. Pur fornite di un bagaglio globalizzato l’attenzione al loro paese le porta spesso nei villaggi, lontano da Tbilisi, dove emergono ancora di più i retaggi del passato, il patriarcato, i dettami dell’ortodossia.

Lo si vedrà nei film più recenti come Wet Sand di Elene Naveriani (2021) che era a Locarno nella sezione Cineasti del presente, dove in un villaggio del Mar Nero emerge in seguito a un drammatico suicidio una relazione tenuta nascosta per anni e si evidenzia «la cultura patriarcale che impedisce alla società di evolversi» come sottolinea la regista. Tematiche Lbgtq+ sono espresse nel documentario del 2021 L’umore della stanza di Ketevan Kapanadze (classe 1997) ambientato a Kutaisi, la seconda città del paese, dove una squadra di calcio femminile e tutto l’ambiente che la circonda, è un’enclave contrapposta a un ambiente sociale e familiare ostile.

Lo ha prodotto Salomé Jashi, cineasta e videoartista in programma a Trieste con il celebrato Taming the Garden (2021) premiato (tra gli altri festival) al Sundance, racconto di uno sradicamento di alberi secolari da parte di un riccone che ha fatto soldi non si sa come e che li trapianta nel suo parco artificiale, racconto chiarissimo nel delineare la perdita di qualcosa di ancestrale nella memoria collettiva della comunità, ma estremamente allusivo nell’andamento, con una serie di immagini imprevedibili che creano stupore e aspettativa, sdegno e dolore, pur nella pacatezza del ritmo.

Come in un ribaltamento epocale dell’uso della classe operaia nel cinema, qui i proletari sono al servizio del capitalista, è evidente in questo senso l’uso sferzante della presenza di gruisti, carpentieri e manovali, una folla contrapposta ai paesani certi di essere turlupinati dal potente, che in cambio ha offerto pochi soldi di risarcimento e la costruzione di una strada. Un film astratto, quasi senza parole, ma quando ci sono arrivano lapidarie, applicabili più in generale anche al contemporaneo comportamento dei politici. Come quelle della nonna novantenne: «prenderanno gli alberi, prometteranno soldi e non faranno niente». Il film ha l’andamento di una fiaba paurosa e inevitabile nel suo andamento, in cui la natura è animata e produce lamenti e ululati nella notte e i poveri contadini sono impotenti di fronte alla rapina dei loro ricordi, dell’ombra sotto cui hanno giocato generazioni di bambini.

Vengono in mente quelle tante similitudini tra il nostro sud e la Georgia come il furto, l’espianto degli ulivi secolari del Salento e perfino lo sgomento di Melendugno di fronte a un oleodotto in arrivo su siti preistorici: il documentario The Pipeline Next Door di Nino Kirtadze (2005) è l’antefatto, la storia di un percorso salutato come la nuova Via della Seta, la posa dell’oleodotto Bp che dal Kazakistan arriva nella valle del Borjoni, zona di acque minerali, per poi arrivare all’Adriatico. Documentario denuncia dello sfruttamento dei paesani a cui comprare la terra per un pugno di soldi, compresa la contaminazione delle acque e lo stravolgimento del territorio.

Dell’inizio del decennio sono alcuni film che affrontano problematiche più metropolitane, come la mancanza di sostegno pubblico di fronte alle malattie, il patriarcato imperante non solo nelle zone rurali, la povertà. Sono sempre personaggi femminili a dover fronteggiare situazioni al limite: In fiore di Nana Ekvtimishvili e Simon Gross (2013), ambientato all’inizio dei ’90, quando il paese è appena diventato indipendente ed è in guerra contro l’Abkhazia, in una società violenta due studentesse tredicenni diventano adulte a partire da retroterra disastrati anche se apparentemente «normali» come l’alcolismo molesto, l’uso di armi da fuoco o da taglio.

La guerra con l’Abkhazia appena terminata è anche protagonista in La casa degli altri esordio di Rusudan Glurjidze (2016) premiato a Karlovy Vary: le case degli sconfitti sono assegnate ai vincitori, ma quel periodo di sospensione temporale non durerà a lungo. Il film racconta il clima dell’attesa, dell’allarme continuo, pur nella ricerca anche qui di un’impossibile «normalità».

In La vita di Anna (2016) di Nino Basilia, diplomata a Mosca, premio Fipresci al Cairo, la madre di un bambino autistico che il padre non vuole neanche vedere, fronteggia ogni ostacolo, si destreggia tra diversi lavori, si prende cura della nonna, cerca di ottenere un visto per l’America che non ha i soldi per pagare ed è in sostanza abbandonata dalle istituzioni.

Da un lato insostenibile per il senso di precipizio inevitabile in cui cade la protagonista appartenente a una classe alta, ma dall’altro costruito con grande e sapiente ironia è Linea di credito di Salomé Alexi (2014) ovvero come non ci si riesce a destreggiare dal punto di vista economico nella nuova società dopo la caduta del comunismo, dovendo mantenere il decoro di un tempo, all’oscuro di questioni finanziarie e del significato basilaredegli interessi bancari o dell’usura. Un film che assume maggiore profondità di significato se si pensa che la regista appartiene all’aristocrazia cinematografica, nipote di Lana Gogoberidz, maestra del cinema georgiano.

In fondo le sole donne georgiane che escono vincitrici sono le Regine degli scacchi raccontate in Glory to the Queen di Tatia Skirtladze (2020) campionesse del mondo e olimpiche di scacchi, capaci di mettere in imbarazzo anche Bobby Fischer, ma il problema è che tutti ricordano Fischer, ma pochi sanno chi sono, gloria sportiva dell’Urss, Maia Chiburdanidze, Nana Iosseliani, Nona Gaprindashvili, Nana Alexandria, tante campionesse espresse da un paese così piccolo e leggendario.

Un paese, si ricorda, dove la scacchiera faceva parte della dote di una donna, un’usanza solo georgiana. Nel documentario ricchissimo di materiali di repertorio dagli anni Sessanta ad oggi, si vede la concentrazione degli innumerevoli appassionati nel tentare di seguire le mosse, le partite multiple affrontate in contemporanea, le folle osannanti nel ricevere le campionesse al ritorno dai tornei vinti. E innumerevoli ragazze dei nostri giorni chiamate Nino o Maia in onore delle campionesse.