Quando nel 1751 D’Alembert scrive il Discorso preliminare all’Encyclopédie, immagina la sua opera come una grande rete, un labirinto di tracciati del tutto sovrapponibile a una mappa stradale in cui il lettore sembra potersi muovere lungo infinite direzioni, spostandosi da un punto all’altro del sapere attraverso una molteplicità di scelte. Quello che sarà il più grande progetto culturale della modernità si rappresenta così, fin dal suo esordio, sotto forma di un sistema mobile, in cui lo scambio, il movimento, il flusso di idee diventano l’unica condizione necessaria per la costruzione della conoscenza.

MA CHE TIPO DI RETE poteva avere sotto gli occhi D’Alembert mentre scrive il Discorso preliminare? Qual era il modello più immediato e concreto di rete per un uomo del Settecento?
Le strade del servizio postale sono il primo oggetto, in Francia, a essere rappresentato dalla cartografia tematica moderna. Stazioni di cambio dei cavalli, distanze in leghe, diventano il linguaggio quotidiano per descrivere il mondo. Anche il mare si trasforma. Il 18 marzo 1719, Carlo VI elimina i dazi doganali all’intero del porto di Trieste, dichiarandolo Porto franco.
Se apparentemente questa può sembrare una semplice agevolazione commerciale, a partire dal XVIII secolo si inizia a capire che lo sviluppo di una società si produce non soltanto grazie all’economia, ma anche grazie a un continuo scambio di esperienze e di saperi, ai risultati legati alla mobilità delle persone e alla facilità con cui vengono accolte.

IN UNA PAROLA, se i porti franchi europei sono punti nevralgici all’interno della rete commerciale settecentesca, lo sono a maggior ragione per il flusso di idee che a questa rete spesso si intreccia e si sovrappone. I carteggi – conservati oggi all’Archivio di Stato di Venezia – tra Casanova, il console di Trieste Mario de Monti, il consigliere commerciale Alexander von Schnell, il mercante Michele Angelo Zois e l’ambasciatore Sebastiano Foscarini a Vienna ci restituiscono l’immagine di un sistema di amicizie e di contatti personali tra Trieste, Venezia, Vienna, Lubiana estremamente fitto e articolato. I porti franchi europei diventano luoghi di libertà e di scambio non solo economico, ma anche culturale. Diplomatici, commercianti, intellettuali, funzionari e artisti si muovono all’interno di un sistema mobile e aperto in cui le informazioni circolano come merci e in cui la moneta e la parola hanno un peso altrettanto forte.

DI FATTO OGNI PORTO è una creatura bifronte: uno sguardo puntato verso il mare, uno spalancato sulla città. Anzi, un porto forse è ancora più legato strutturalmente alla terra che al mare stesso. Un esempio su tutti, il caffè che all’interno della storia di Trieste si è trasformato da puro bene economico a motore culturale, mutando più volte la morfologia del territorio. Di fatto non soltanto la Borsa del caffè e le torrefazioni, ma anche i Caffè storici – che Stendhal, Joyce, Svevo, Saba hanno trasformato in una vera e propria leggenda cittadina – non sarebbero esistiti senza le donne (le «sessolotte» da «sessola», cucchiaio in dialetto triestino) che fino agli anni Cinquanta nei magazzini del porto separavano a mano i chicchi buoni da quelli marci.

Se Trieste nei suoi periodi migliori è arrivata ad avere un Caffè ogni 163 abitanti, è perché di fatto il porto franco – attraendo le grandi navi mercantili dell’Impero ottomano – ha funzionato da punto di giuntura tra oggetto e idea, tra rete economica e rete del sapere.
In questi mesi di festeggiamenti per i trecento anni dal provvedimento di Carlo VI, Trieste punta sul porto come a una possibile rinascita non soltanto sul mare, ma forse anche e soprattutto sulla terra. Se fino al 2003 i traffici marittimi più importanti hanno interessato le rotte tra Suez e Gibilterra, tagliando di fatto fuori l’Adriatico, già dalla fine degli anni Novanta in poi il panorama della localizzazione industriale mondiale ha iniziato a cambiare. Per quanto riguarda l’Europa, l’economia fisica e materiale si è spostata verso Est, trasformando di nuovo l’Adriatico in un corridoio strategico. Non è infatti tanto la posizione all’interno di una rete a fare di un punto specifico un centro nevralgico o meno, quanto i flussi e gli equilibri all’interno della rete stessa.

NEL MOMENTO IN CUI L’EST europeo diventa un mercato in crescita e nel momento in cui Trieste è l’unico scalo italiano ad avere un collegamento ferroviario extranazionale, è giocoforza un mutamento evidente di ruoli. Nel 2018 i treni che sono transitati dal porto (i binari arrivano fino al molo) sono stati 3.600 con un carico complessivo di 625.000 Teu (contenitori da 20 piedi), e entro la fine del 2019 è previsto un incremento maggiore con la riattivazione di tutto il tracciato della Transalpina che collega Italia e Slovenia. In più i fondali naturali di 18 metri di pescaggio aprono la possibilità di attracco alle grosse navi dalla Corea e dalla Cina.
Apparentemente quindi tutto farebbe supporre che il porto di Trieste possa riflettersi nel suo passato settecentesco come il recto e verso di un’immagine speculare. Accadrà di nuovo che il porto modifichi la morfologia della città e che rete commerciale e rete culturale si sovrappongano ancora?