«Statue of Peace» è una serie di opere realizzate dall’artista coreano Kim Seo-kyung nel 2011, sculture che rappresentano una donna seduta su una sedia. Simbolo delle migliaia di ianfu, le donne asiatiche che durante l’invasione giapponese furono ridotte a schiave sessuali e costrette a prostituirsi, questi lavori hanno scatenato, fin dal momento della loro creazione, una serie di aspre reazioni, soprattutto da parte del governo giapponese e di un certo settore politico che nega che questi tragici fatti siano mai accaduti.

Una di queste sculture è stata in esposizione alla Triennale di Aichi, uno dei più importanti eventi artistici del Sol Levante in corso in questi giorni. «È stata» perché fin da prima dell’inaugurazione dell’evento, il primo agosto, la notizia che questa statua della pace fosse presente aveva già fatto inondare di lettere, telefonate e fax (in Giappone questa tecnologia è ancora misteriosamente e largamente usata) gli uffici della prefettura di Aichi e della città di Nagoya. Una volta esposta al pubblico, le proteste, secondo quanto comunicato dalle autorità, si sono fatte sempre più veementi e violente.

Fino ad ora sono stati arrestati un membro di un gruppo neonazista ed un uomo di 59 anni, quest’ultimo per aver minacciato di dare fuoco ai luoghi dell’esposizione. Dopo tre giorni dall’apertura della Triennale, l’organizzazione, ha deciso di chiudere il settore della mostra dove si trovava l’opera dell’artista coreano, paradossalmente intitolata «Dopo la libertà di espressione?» che aveva quindi come tema principale proprio i limiti dell’espressione artistica. Uno dei più ferventi sostenitori della chiusura della mostra è stato il sindaco della città di Nagoya Takashi Kawamura, non nuovo a posizioni del genere. Nel 2012 infatti il politico, durante la visita di una delegazione dalla città cinese di Nanchino, aveva negato, o almeno minimizzato, i fatti del massacro di Nanchino compiuti dalle truppe imperiali giapponesi fra il 1937 ed il 1938.

La decisione non è stata presa benissimo da molti e anche, se non soprattutto, dagli stessi curatori della mostra, in primis dal direttore artistico della Triennale Daisuke Tsuda, che l’ha definita «La più grave censura avvenuta in Giappone nel periodo post-bellico».
Questi fatti si inseriscono e si stanno sviluppando in un periodo fra i più tesi degli ultimi decenni fra Giappone e Corea del Sud, almeno dalla normalizzazione dei rapporti fra i due paesi avvenuta nel 1965 . Ratifiche di trattati commerciali ed altre schermaglie politiche recenti sono solo la punta dell’iceberg di un sentimento che si sta inasprendo sempre di più, nonostante non ci siano mai stati uno scambio ed una trasmissione così massicci fra le produzioni della cultura pop dei due paesi.

È notizia di qualche giorno fa una lettera aperta con cui 72 dei 90 artisti presenti alla Triennale chiedono che la mostra «Dopo la libertà di espressione» sia riaperta, sottolineando la gravità dell’atto e come l’arte non possa seguire dettami politici e soprattutto piegarsi a minacce di violenza. Al contrario i firmatari di questo appello chiedono con fermezza che la Triennale crei uno spazio di discussione, anche animato e contrastante, dove poter mettere in campo le varie opinioni e vedute.

Anche se la questione è usata da più parti per perseguire fini politici e di propaganda, a voler essere ottimisti, da un altro lato sta generando dei dibattiti abbastanza interessanti, sui giornali ed in rete, sull’esistenza o meno di confini per l’espressione artistica contemporanea, soprattutto quando incastonata in delicati contesti geopolitici.

matteo.boscarol@gmail.com