Quanta preveggenza ci fu nella scelta del titolo per la 58ma Biennale d’Arte tenutasi lo scorso anno a Venezia: May You Live In Interesting Times. Letta oggi, poi, la spiegazione datante allora dagli organizzatori risulta per noi ancora più divinatoria: «Il titolo – scrivevano infatti questi – è un’espressione della lingua inglese a lungo erroneamente attribuita a un’antica maledizione cinese, che evoca periodi di incertezza, crisi e disordini». Ed eccoli qui arrivati, dunque, quei tempi, anche se dalle parole d’ordine richiamate in chiusura ne mancava solo una, la più importante, la più determinante, la più sottovalutata: pandemia. Insomma, al netto di ciò, il mondo dell’arte – senza molta fatica, bisogna dirlo – aveva lanciato un messaggio chiaro, icastico, non fraintendibile. Era però un vero messaggio d’allarme, il suo? Forse sì. Forse no. Dopotutto, ce lo siamo sentito ripetere più e più volte anche durante questi mesi di confinamento forzato: dalla crisi ci si rialzerà più forti di prima, si uscirà diversi, migliori, migliorati, intellettualmente maggiorati. Tempi difficili, certo, ma pur sempre interesting times, sembrava voler comunque sottolineare il curatore di quella Biennale, Ralph Rugoff.
Ascoltando i discorsi odierni che circondano l’ambiente della Cultura, e delle istituzioni museali in particolare, consci delle sfide imposte dal virus e che ora con maggiore pressione si pongono, sembra emergere da varie parti la volontà di ripensare l’intera meccanica degli eventi espositivi, delle grandi mostre, con il loro dispendio e sperpero di denari ed energie, nel desiderio, almeno a parole, di puntare da qui in avanti su progetti di maggiore sostenibilità e allo stesso tempo di reale possibilità di crescita personale, collettiva e, perché no, pure scientifica. Nel caso di Venezia, propositi come questi sono stati nell’ultimo decennio in gran parte disattesi, ma il 2019 si è dimostrato anche su tale versante un anno precorritore, i cui esiti sono tuttora fortunatamente ammirabili. Rimarrà infatti visitabile fino al 30 maggio 2021 il riallestimento, nel palazzo omonimo di Santa Maria Formosa, della cosiddetta Tribuna Grimani: uno dei luoghi simbolo del Rinascimento veneziano.
L’iniziativa, intitolata Domus Grimani 1594-2019 (catalogo Marsilio Editori, pp. 160, euro 30,00) e curata da Daniele Ferrara, responsabile del Polo Museale del Veneto, e Toto Bergamo Rossi, direttore di Venetian Heritage, ha reso possibile dopo più di quattrocento anni la ricostruzione di quel mirabile ambiente, di quella Skulpturkammer fortemente voluta dal patriarca di Aquileia Giovanni Grimani (1506-1593), il quale, sul finire della sua vita, seguendo l’esempio dello zio, il cardinale Domenico, morto nel 1523, donò più di duecento sculture alla Repubblica Serenissima.
Era il 1587 quando il nobile prelato dichiarò dinanzi al Senato Marciano la volontà di destinare al pubblico godimento quanto lui e gli altri membri della «casa Grimana» avevano via via acquistato e riservato alle diverse stanze del bel palazzo «alla romana» che egli stesso aveva allestito e fatto decorare da artisti giunti appositamente in laguna dall’Urbe. Benché «più ambitioso che non fu Lucifero», secondo le parole riservategli da Leonardo Donà, Giovanni Grimani con il suo gesto desiderava che «li forestieri dopo aver veduto et l’Arsenale, et l’altre cose meravigliose di quella città, potessero anco per cosa notabile veder queste antichità ridotte in un luogo pubblico». E così avvenne alla sua scomparsa. I marmi greci e romani furono inventariati e trasportati nell’Antisala della Libreria sansoviniana, dando gloriosamente avvio alla costituzione di quello Statuario Pubblico a tutti aperto e da tutti ammirabile.
Ebbene, dovendo il Vestibolo della Biblioteca Marciana subire importanti lavori di restauro, Toto Bergamo Rossi, e con lui Ferrara, ha compreso come la necessaria rimozione delle sculture lì conservate potesse trasformarsi nell’occasione per un temporaneo, mai tentato, riallestimento di «uno dei più significativi episodi della museologia europea, ovvero il “camerino delle antichità” del patriarca Grimani, la Tribuna, ancora integra nella sua struttura architettonica». Attraverso la ricerca di fondi, di sponsor, di collaborazioni, si è arrivati a un risultato finale d’alta qualità e di altissimo impatto emotivo.
Acquistato dallo Stato Italiano nel 1981, sottoposto a lavori per più di vent’anni, Palazzo Grimani ha riaperto il suo portone affacciato su Rugagiuffa solo nel 2008. Entrato nel 2015 nel Polo Museale del Veneto, è una realtà un po’ strana, complicata da incasellare, difficile da definire. È certo un magnifico edificio, perfettamente restaurato, con alcuni ambienti non privi di splendore (si pensi alla Stanza di Apollo con gli affreschi di Francesco Salviati e Lambert Sustris, o allo Scalone monumentale ricco di stucchi e con pitture di Federico Zuccari), ma a visitarlo si aveva sempre la sensazione di un contenitore vuoto, in perenne attesa di… Dal maggio dell’anno scorso, però, cioè da quando Domus Grimani ha inaugurato, entrare nel palazzo, salire al primo piano nobile, passare nel portego e da lì percorrere la direttrice che dal Camaron d’Oro porta alla Tribuna, passando per la Sala dei fogliami e l’Antitribuna, significa saltare, realmente, dal 2020 al 1594.
Arrivando da stanze in cui la luce entra fioca, da sinistra, la Tribuna, magnificamente illuminata dall’alto, attraverso la lanterna aperta al centro del soffitto, appare ora, con le statue e i busti e i rilievi e i basamenti lì ricollocati, un luogo altro. Il pavimento di marmi colorati, le pareti impreziosite di membrature e colonne in rosso di Verona su uno sfondo grigio chiaro, e la volta con i suoi stucchi bianchi hanno riacquistato quell’aura dispersa ormai da secoli. Lo spiega bene in catalogo Irene Favaretto, grande studiosa in ambito veneto d’antichità e del loro collezionismo moderno: «Giovanni Grimani – scrive –, nell’ideare la sua Tribuna, aveva certo in mente le collezioni romane, con le loro nicchie, mensole e cornicioni, ma riuscì a creare qualcosa di unico, romano quanto alla scansione simmetrica della parti, ma addolcito da un gusto del colore e per il teatro tutto veneziano». E il teatro, tiene a sottolineare subito dopo la medesima autrice, «lo troviamo soprattutto nell’attenzione con cui erano disposti i ritratti : vi era tutto un gioco di incroci di sguardi tra le sculture, talora volte l’una verso l’altra, quasi a colloquio, in altri casi guardando sdegnosamente davanti a sé». Difficile, insomma, non lasciarsi ammaliare.
Delle 87 opere sistemate nella Tribuna, alcune attirano l’attenzione più di altre, com’è naturale che sia, anche se l’amor statuarum porterebbe a invaghirsi di ogni singolo pezzo. Io ne ho eletto per ora uno: il magnifico Busto di sacerdote isiaco (inv. 117). Scolpito in un prezioso marmo rosso, datato tra il 130-138 d. C., esso probabilmente celebrava, nelle vesti di sacerdote di Iside, il giovane bitinio Antinoo, ossia il favorito di Adriano scomparso prematuramente in Egitto.
Ci si potrebbe intrattenere parlando dell’importanza che una raccolta così, divenuta pubblica, ha avuto per gli scultori gravitanti e operanti nella Serenissima nel Sei e nel Settecento. E penso a un Giusto Le Court, a un Antonio Corradini, un Giovanni Marchiori, un Antonio Gai, per non dire poi del giovanissimo Canova. In fondo lo stesso Giovanni Grimani si augurava apertamente che il patrimonio da lui donato, «di molta bellezza e stima», servisse «per instruttione et esempio d’altri».