Ci sono due spiegazioni della visita del ministro Giovanni Tria in Cina. Una legata alla contingenza, l’altra a una prospettiva di più lungo periodo. La prima. Negli ultimi tre mesi, il volume di vendite dei nostri titoli di stato da parte dei principali fondi di investimento esteri ha accarezzato la soglia dei cento miliardi di euro. Fuga dal nostro debito, aumento del rendimento dei titoli a media e breve scadenza. Il tasso d’interesse sui decennali, da gennaio ad oggi, è passato dal 2 al 3,25% (spread con bund tedeschi che viaggia verso i 300 punti base). Il timore del governo, rinfocolato da alcune tendenze registrate in questo mese d’agosto, è che l’autunno possa portare maltempo, finanziariamente parlando, nel bel mezzo della prossima sessione di bilancio. Salterebbero tutti i piani sulla legge di stabilità, rischierebbe lo stesso governo.

Per scongiurare questa eventualità, il ministro dell’economia è andato a chiedere soldi a Pechino, ancorché pubblicamente abbia smentito che fosse questa la ragione del viaggio (diversamente avrebbe messo in allarme i mercati, ammettendo l’esistenza di problemi). Più investimenti cinesi nel debito pubblico italiano, dunque, in cambio dell’ingresso del renminbi, la «moneta del popolo» cinese, tra le riserve valutarie della Banca d’Italia. In sostanza, Palazzo Koch andrebbe a costituire un portafoglio nella valuta cinese per comprare titoli di stato dello stesso paese. Solo una partita finanziaria per puntellare il nostro debito pubblico? No, l’operazione ha implicazioni molto più estese. In questo modo, il nostro governo accetta di dare una mano a Pechino nella sua corsa ad internazionalizzare lo yuan (o renminbi), che poi significa rafforzare il proprio ruolo nel mercato mondiale in diretta concorrenza con gli Stati uniti d’America.

E siamo arrivati alla seconda spiegazione. Con le autorità politiche e gli investitori cinesi, il ministro Tria non ha affrontato soltanto il tema del debito, ma anche quello di una possibile cooperazione del nostro Paese nel gigantesco progetto delle rotte commerciali euro-asiatiche lanciato da Xi Jinping nel 2013, conosciuto col nome di «Nuova Via della Seta» (One Belt One Road). Due corridoi per le merci cinesi, di cui uno terrestre, composto da tre diverse rotte (dalla Cina verso l’Europa, il Medio Oriente e il Sud-est asiatico), e l’altro marittimo, composto invece da due sole rotte (la prima dalla Cina all’Europa passando per l’Oceano Indiano e il Mar Rosso, la seconda che collega Pechino con le isole del Pacifico). Un progetto che coinvolgerà i due terzi della popolazione mondiale (30% del Pil del pianeta), con investimenti in infrastrutture materiali e immateriali che, nelle intenzioni del governo, potrebbero superare i mille miliardi di dollari.

Oltre alla stipula di alcuni accordi (e l’ampliamento di altri già in essere) commerciali e tecnici che coinvolgono Cassa depositi e prestiti, Fincantieri e Snam, il ministro ha proposto che l’Italia sia uno degli snodi importanti della «Via della Seta» in Europa, con i suoi principali porti (Trieste e Geneva). Scenario plausibile? Per adesso, oltre al porto del Pireo in Grecia (principale hub cinese in Europa), gli investimenti del dragone hanno riguardato maggiormente altri scali, da Valencia a Marsiglia, fino a Rotterdam. Non è escluso, tuttavia, che, nel prossimo futuro, a questi possa aggiungersi anche Trieste (al di là di Tria, era già nel mirino).

Pechino sempre più alla conquista del mondo, insomma. E l’Italia, come altri paesi europei, africani ed asiatici, desiderosa di avere un posticino al banchetto allestito da Pechino (c’è chi parla di un nuovo «Piano Marshall»).
Dal suo canto, la Cina ha interesse non solo ad affermare la sua egemonia su scala globale, investendo a tal fine anche nel deterrente militare-nucleare, ma pure a specializzare maggiormente le sue produzioni, puntando su lavorazioni ad alto valore aggiunto. Da fabbrica mondiale dei prodotti a basso costo a nuova frontiera del digitale, dell’elettronica, della meccanica avanzata. Una transizione in cui potrebbe giocare un ruolo di primo piano proprio il background accumulato dai principali paesi europei su alcune filiere produttive. Reciproche convenienze, si potrebbe dire.

Dilemma: tra qualche decennio l’Europa potrebbe diventare una periferia del nuovo Impero Celeste? Dipende, ma l’ipotesi non è del tutto peregrina. Per l’Europa delle piccole patrie tanto cara a Salvini ed ai suoi soci di Visegrad, invece, questo sarebbe certamente uno degli approdi possibili, nel quadro della nuova contesa per l’egemonia tra oriente e occidente.