«Abbiamo fornito un aiuto innegabile in assenza di qualunque parametro di legge. Abbiamo aiutato Davide Trentini in base ad un dovere morale e lo rifarei esattamente nello stesso modo». Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, promotore della campagna Eutanasia legale, si è rivolto così ieri ai giudici Corte d’assise di Massa prima che si ritirassero in camera di consiglio. «Il fatto non sussiste», è stato il verdetto.

Non è un reato aver accompagnato in Svizzera, come fece Mina Welby, un uomo di 53 anni malato di sclerosi multipla che lì ottenne il suicidio assistito nel 2017. Non è un reato averlo aiutato economicamente, come fece Marco Cappato. Che aggiunge: «Alla corte vorrei ricordare che dalla morte di dj Fabo e Trentini altre decine di persone si sono recate in Svizzera per il suicidio assistito e le autorità italiane ne sono state informate da quelle elvetiche. Nessun procedimento penale però si è aperto. Quelle persone non hanno avuto bisogno di noi, perché avevano i soldi per farlo e chi li trasportava. Ma questo non può essere il discrimine tra malati che soffrono».

Per Cappato e per l’ottantenne Wilhelmine Schett, detta Mina, copresidente dell’associazione, vedova di Piergiorgio Welby (tra i primi radicali a lottare per l’autodeterminazione nel fine vita), la pubblica accusa aveva chiesto 3 anni e 4 mesi di reclusioni per aiuto al suicidio.

Reato che ancora esiste malgrado il pronunciamento della Consulta sul caso di Dj Fabo che stabiliva la non punibilità del reato quando l’aspirante suicida, «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli», è «tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale» ed è «affetto da una patologia irreversibile» che causa «sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili». Non era questo il caso di Trentini. Ma il verdetto, conseguito da un pool di avvocati con a capo la segretaria dell’associazione Coscioni, Filomena Gallo, apre nuovi e interessanti scenari.