Non è un libro ricco di suspense perché la conclusione è annunciata fin dal titolo – Alla fine lui muore – ma il nuovo romanzo di Alberto Caviglia (Giuntina, pp. 200, euro 14), riserva comunque molte sorprese; ragiona e si interroga su cosa accada a un trentenne che il giorno del suo compleanno scopre, quale regalo inaspettato, di essere diventato vecchio. Non vecchio nel senso di aver progredito di un anno nell’avanzare della vita, vecchio nel senso di anziano, privo di forze e pieno di acciacchi. Piccoli segni anticipatori vi erano stati ma la conclamazione avviene proprio il giorno del suo trentesimo anniversario di nascita.

ABBANDONATA COSÌ l’ironia corrosiva del suo precedente Olocaustico (Giuntina, 2019), dove la vivacità di incontri, di esiti surreali e la luce che ne riempiva le pagine era co-interprete dei personaggi, questo nuovo protagonista, Duccio Contini, deve forse alla pandemia, che pure nel libro non viene mai nominata, un umorismo più malinconico che segnala un tratto soffocante insieme alla solitudine, allo sconcerto, all’impotenza che cerca un riscatto nell’adagiarsi alla terza età. Un adeguarsi progressivo e faticoso che implica l’allontanamento dagli amici e dalla famiglia incapaci di comprendere cosa stia accadendo. Un racconto comico e amaro per le vie tra Trastevere e Monteverde a Roma.

«Avrei smesso di affannarmi – scrive ironico Caviglia nelle prima persona con cui è declinato il personaggio di Duccio – anche perché ormai avevo ben altro a cui pensare. Il tempo che mi rimaneva non potevo più sprecarlo per fingere di essere quello che non sarei mai stato. In quel tempo avrei dovuto imparare un nuovo stile di vita e adattarmici. Avrei dovuto trovarmi degli scopi, ammesso che ce ne fossero stati, e avrei dovuto voltare definitivamente pagina, accettando una volta per tutte quello che ero diventato. In quel tempo avrei dovuto trovare il coraggio che fino a quel momento mi era mancato». Quella di Duccio Contini è però una sfida attraverso la quale siamo passati tutti nei mesi di reclusione, della paura dei contatti umani, del fare i conti con un tempo che non è più. Eppure, nel privilegiare una lettura che discende dalla pandemia, si sottrae forse al romanzo una valenza generazionale che riguarda dei trentenni scopertisi vecchi senza passare per l’età adulta.

CAVIGLIA COMUNQUE, senza rinunciare all’ironia, ridisegna un presente in cui Duccio vaga tra la farmacia – che offre nuovi incontri e amicizie – e l’acquisto di un carrellino per la spesa indispensabile alle sue forze ridotte. Costretto dalla vecchiaia a misurare ogni azione e ogni relazione con un gagliardo «cds», il coefficiente di sopportazione, sul quale calcolare ogni sforzo e ogni impegno. Le energie che vanno riducendosi man mano che la narrazione procede ridisegnano il tempo come un inevitabile conto alla rovescia che lo separa dalla morte. Un tempo senza paura – e questo è forse il tratto meno convincente del libro – ma che pure deve essere vissuto, gestito e reinventato: «Nelle settimane successive mi rimboccai le maniche – racconta Duccio – Strano a dirsi, ma anche se i dolori articolari si acutizzavano, anche se la tosse si era cronicizzata e l’asma peggiorava, in un certo senso mi sentivo rinato. Rinato vecchio, ma comunque rinato» .

PRIMA di scoprirsi vecchio il protagonista Contini era stato un promettente scrittore di successo e ha probabilmente qualche tratto autobiografico in comune con il suo autore: in entrambi urge la necessità dei tempi: «Ogni epoca è stata popolata da una maggioranza silenziosa di individui ossessionati dal lasciare la propria impronta su qualche parete di granito». Una tensione che si riesce ad abbandonare con l’approssimarsi, nel caso di Duccio, della terza età.
Alberto Caviglia non è nuovo a rovesciamenti di senso, esordisce alla regia nel 2015 con Pecore in erba: provocatorio falso documentario sulla scomparsa di Leonardo Zuliani, attivista per i diritti civili degli antisemiti, presentato al Festival di Venezia. Ha lavorato inoltre come assistente alla regia dal 2006, ha collaborato con Ferzan Ozpetek ed è coautore di trasmissioni televisive.
Alla fine lui muore ha una chiusa che si colora di fantasy, amaro e tenero riscatto perché anche da vecchi la felicità è possibile e la sfortuna sempre in agguato.