Trent’anni dopo il crollo della Deutsche Demokratische Republik, quattro frammenti umani restituiscono altrettanti pezzi nascosti del Muro di Berlino, irriducibile ai soli 160 chilometri di barriera in cemento armato infarcita di mine antiuomo.

Storie di vita quotidiana, al di là del mito comunista, oltre la propaganda del vecchio e nuovo capitalismo, a cavallo della Sprea dove ora a svettare è solo l’«East Side Gallery» che attira milioni di turisti da tutto il mondo. Quattro piccoli tasselli della Grande Storia che faticano a trovare posto nella narrazione da manuale, ma si ostinano a occupare spazio perfino alla fine del “ventennio” di Angela Merkel. Basta avere la voglia di consumare un po’ le suole delle scarpe, aprire le orecchie, spalancare gli occhi per guardare ciò che sopravvive. Davvero, ancora, in carne e ossa.

Solidarietà Popolare

Ahmed F., 4 anni, nato nel Nord della Siria, sorride ai passanti agitando la manina, con il naso ben piantato sulla vetrina affacciata su Wismarplatz, nel cuore di Friedrichshain, l’ex quartiere operaio di Berlino Est.
Dietro, la sagoma della madre insieme a una ventina di altri «ospiti» seduti intorno al tavolo ovale che occupa metà del locale al civico 89 di Boxhagener Strasse. È uno dei 19 presìdi berlinesi della Volkssolidarität (Solidarietà popolare): l’unica organizzazione di massa comunista sopravvissuta alla fine della Ddr. Fondata a Dresda nel 1945, oggi continua a occuparsi della sozialpolitik delle categorie vulnerabili, a partire dai rifugiati, piccoli e grandi. Fino al 1989 la mission scolpita nello statuto era la cura degli anziani affidata agli oltre 2 milioni di membri. Dopo il crollo del Muro, la VB ha allargato la competenza a bambini, adolescenti e malati cronici, facendo affidamento su 19.300 dipendenti, 21 mila volontari e 145 mila tesserati. Le auto di servizio non sono più le puzzolenti Trabant ma le Volkswagen Polo di ultima generazione; per il resto, nelle sezioni VB – da cinque anni guidata da Wolfram Friedersdorff – non è cambiato quasi niente. Classe 1950, originario della Sassonia, il presidente di «Solidarietà popolare» vanta un passato nella Sed ed è un politico della Linke. Mentre è noto anche per la passione per la maratona, inestinguibile proprio come la fiamma rossa sopra la “V” che resta il logo dell’organizzazione oggi tra i maggiori datori di lavoro nella Germania dell’Est.

Come si finanzia nel “libero” mercato? «Con i contributi: 25 pfenning ai tempi della Ddr, ora sono 3 euro. Servono per fare funzionare l’ufficio federale di Berlino mentre gli altri dipendenti si pagano con i servizi offerti: dalle strutture di assistenza ai centri diurni, fino ai nostri 400 asili» riassume il presidente. Pronto ad aiutare i nuovi poveri dell’ex ricco Ovest, dopo l’apertura dei presìdi in Nordreno-Westfalia e nella Saar.

«Comandi»

Prenzlauer-Berg, quartiere dei radical-chic (che i berlinesi chiamano schiki-micki), il rione più gentrificato della capitale. Da queste parti gli affitti hanno raggiunto quote stratosferiche; non si trova un edificio che non sia stato completamente restaurato. Un luogo invivibile per gente come Christa (nome di fantasia), 75 anni circa, ex impiegata di un ufficio indirettamente alle dipendenze della Stasi, che lei si ostina a chiamare Ministero per la Sicurezza dello Stato. La sua pensione, un terzo inferiore ai coetanei dell’Ovest, non le permette più di abitare l’alloggio dove ha vissuto per mezzo secolo. Perfino traslocare è un problema grande come una casa. Scarseggiano gli euro anche solo per smaltire i sette mobili, compreso il comodino che sul retro riporta ancora l’etichetta con il numero dell’inventario di Stato. Eppure Christa ce la fa. Perché basta una cassa di 20 bottiglie di birra Sternburg (costo: 7 euro e 80 cent) e la rubrica con i numeri di telefono dei vecchi «compagni» più giovani di una decina di anni. Si sono presentati in cinque, puntuali, a bordo di un Ford Transit Diesel cassonato con la targa della confinante provincia del Barnim: un furgone che neppure potrebbe circolare all’interno dell’anello di binari della metro che definisce il nuovo centro di Berlino. Il palazzo costruito nel 1895 (così sulla facciata) non ha l’ascensore; in compenso il paranco elettrico preso a nolo al mega-store di utensili per pochi euro si fissa agevolmente al balcone. Trent’anni dopo la caduta del Muro, lo spirito di corpo dell’istituzione più famigerata della Ddr resiste alla corrosione del tempo, dei processi, della condanna popolare. Il «Comandi» non è più al grande capo della Stasi, Erich Mielke, ma all’anziana collega che ha bisogno di aiuto. Proprio come allora, basta alzare la cornetta, che oggi è marchiata Samsung.

Il Muro nei piedi

Due novembre 2019, stadio “Alla Vecchia Foresteria” nel quartiere di Köpenick, è il 90esimo minuto del derby tra le due squadre di calcio di Berlino.

Sebastian Polter, su rigore, segna il gol che assegna la vittoria all’Eisern-Union, la squadra dell’Est (neo-promossa in Bundesliga) capace di battere in “zona Cesarini” l’Herta: la “Vecchia Signora” dell’Ovest.

Una partita tirata fino alla fine, sospesa per qualche minuto a causa dell’incessante lancio di petardi e razzi. Prima del fischio d’inizio, nel pomeriggio, i tifosi bianco-blù dell’Herta hanno sfilato, inquadrati come militari, per le vie di Friedrichshain e Lichtenberg scandendo slogan contro i “rossi” di Berlino-Est. Quelli dell’Union hanno replicato con la spettacolare coreografia della spada che decapita il team dell’Ovest raffigurato con la testa di Medusa. Rivalità sportiva? Di più: scontro tra due mondi opposti, tutt’altro che pacificati da ciò che nelle tribune dell’Olympiastadion (campo di gioco dell’Herta) si chiama «riunificazione della Germania» e “Alla Vecchia foresteria” «annessione della Ddr». È la declinazione calcistica del «Muro nella testa» (Die Mauer in Kopf) che va al di là della politica e resiste a qualunque picconata. Nel 2019 la linea di demarcazione tra le tifoserie è ancora sovrapponibile con il tracciato del vecchio Muro. Poco importa se in piena Guerra fredda i supporter si sostenevano a vicenda, con lo slogan «Forza Union» gridato dai berlinesi dell’Ovest e il tifo per l’Herta dei berlinesi dell’Est che potevano vedere giocare la “Vecchia Signora” in trasferta a Praga.

Periferia dell’Impero

«Ci avevano piazzato qui perché era la zona più vicina al confine, la periferia dell’Occidente, l’ultimo chilometro di libertà prima della steppa comunista». Mehmet K. è un elegante signore di 73 anni che dimostra un terzo degli anni portati «come un gilet». Parla tedesco «senza avere mai imparato davvero le declinazioni» e turco «peggio di chi è rimasto a vivere a Istanbul o Ankara». Catapultato in Germania all’inizio degli anni Settanta, è uno dei milioni di gastarbeiter su cui si è fondato il miracolo economico tedesco. Con il crollo del Muro si è ritrovato esattamente al centro di Berlino, nel cuore della movida delle discoteche che attirano turisti da mezzo mondo. In questa parte di Kreuzberg (denominata 36 per via del vecchio codice postale) la lingua più diffusa è l’inglese international masticato ormai da chiunque. Mehmet gestisce per conto terzi uno spätkauf (i piccoli empori dove si vende di tutto aperti fino a tarda ora) tra la Sprea e il parco di Görlitz, dopo aver lavorato per anni come meccanico di biciclette. Per lui il 9 novembre, Trentennale della Riunificazione, combacia con il compleanno della figlia quarantenne. La madre di sua nipote Sofia che ha partecipato al Fridays For Future perché vuole abbattere il muro che soffoca la sua generazione: «quello delle emissioni di CO2».