«Esistono molte forme possibili di ciò che chiamiamo genere ma noi pensiamo siano solo due, maschile e femminile, perché ci hanno insegnato a rendere invisibili le altre. Dobbiamo reimparare a vederle, dobbiamo reimparare a guardare». Con queste parole, la teorica e artista transgender Sandy Stone si esprimeva in Gendernauts. A Journey Through Shifting (1999) di Monika Treut. Pietra miliare nella cultura LGBTQI, il film dava la parola anche alla storica trans* Susan Stryker, alla performer Annie Sprinkle, allo scrittore Max Valerio e agli artisti Jordy Jones, Texas Tomboy, Stafford per un auto-ritratto di gruppo. Che, a vent’anni di distanza, Treut ha riunito in Genderation, presentato in anteprima alla Berlinale 2021 e ora in viaggio per il mondo con il suo bilancio di tre decadi di dissidenza sessuale consegnato alle nuove generazioni. Dagli anni Ottanta, Monika Treut scrive, gira e si produce con la compagnia hyenafilms creata con Elfi Mikesch, omaggio a un animale capace di annullare le frontiere tra maschile e femminile per la sua lunga clitoride ed esuberanza di carattere. Produrre non le piace, «troppa burocrazia», dice, ma è indispensabile per dare ancora forma a un immaginario libero e scomodo sulle mille forme del piacere.
Lei ha girato il suo primo lungo con Elfi Mikesch.
Nei primi anni Ottanta vivevo ad Amburgo dove avevo contribuito a creare un centro culturale femminista in cui curavo la programmazione cinematografica. Avevo anche girato qualche corto e un video-ritratto di Elfi che mi ha chiesto di collaborare alla scrittura, regia e produzione di quello che sarebbe poi diventato Seduction: The Cruel Woman (1984). Avevo scritto una tesi sulla figura della donna crudele in De Sade e von Sacher-Masoc che la interessava molto. La ricezione del nostro film in Germania non è stata molto buona mentre negli Stati Uniti abbiamo riscontrato grande interesse. Ci hanno inviate a New York, a Los Angeles e a San Francisco.
Da lì in poi San Francisco, mecca gay e lesbica, è entrata nei suoi film e nella sua vita.
Ricordo quando ci arrivai la prima volta nel 1985 per partecipare a un festival gay e lesbico: ebbi da subito la sensazione di aver trovato una casa lontano da casa e mi sono trattenuta più a lungo del previsto. Sono diventata amica di lesbiche provenienti da tutto il mondo, Italia compresa. Ho conosciuto Susie Sexpert e tutto il gruppo di coraggiose stripper che realizzava On Our Backs, rivista erotica di donne. Erano gli anni della «guerra» tra femministe pro-sex e anti-sex in cui la rivista ha avuto un ruolo da protagonista.
Questa linea di frattura ha condizionato la ricezione dei suoi film?
Diciamo che la ricezione è cambiata nel corso degli anni. Ai tempi di Seduction, in Germania e non solo le comunità femminista e lesbica combattevano soprattutto contro la violenza che subivano in quanto donne, una battaglia molto seria. Però il mio e di Elfi è sempre stato un approccio più ironico, che cercava di andare oltre la denuncia e la rappresentazione delle donne in quanto vittime sottolineando la libertà e le possibilità per le donne di esprimersi e di espandere il principio di piacere.
Di questa possibilità espansiva ha fatto parte sin da «Die Jungfrauenmaschine» (1988) l’universo trans*. Che cosa l’ha attratta verso chi attraversa le frontiere tra i generi o sosta in zone liminari?
Ci sono molte ragioni, ma la prima è stata la curiosità. Ancora alla fine degli anni Ottanta c’erano pochissime informazioni, specialmente sulle persone Female to Male (FtM). È stata Anny Sprinkle a invitarmi a una delle riunioni mensili che organizzava a New York per FtM e solidali. Inoltre, la mia amica Anita, che poi è diventata Max Wolf Valerio, era in transizione il che mi decise a fare un ritratto del suo percorso che è poi diventato Max (1992). Ero molto interessata a queste esperienze essendo stata io stessa un «tomboy», una ragazzina poco femminile. Mi sono fatta molte domande sulla mia identità di genere e sull’eventualità di una transizione ma è un processo lungo e complesso e mi sono resa conto che avrebbe drenato troppe energie così ho preferito concentrarmi sui miei film e sono venuta a patti con chi sono senza intervenire sul mio corpo.
«Genderation» ritrova le persone intervistate in «Gendernauts». Cosa l’ha decisa a questo ritorno?
Gendernauts è un film che circola ancora e a ogni proiezione pubblica mi veniva chiesto che ne era di tutte le persone intervistate… alcuni di loro hanno una vita pubblica ma altri no e quindi ho proposto loro il progetto. Ero rimasta più o meno in contatto recandomi di tanto in tanto a San Francisco o tramite i social. Da parte loro c’è stata disponibilità anche se Annie, essendo l’unica persona non trans del gruppo aveva dei dubbi. Ma il suo impegno a favore delle persone trans è tale che ci tenevo assolutamente fosse presente insieme alla compagna Beth Stephens che con lei porta avanti progetti molto creativi di arte e militanza «ecosessuale». C’è solo un aspetto doloroso che nel film ho preferito non raccontare e riguarda Texas Tomboy. Texas ha subito un’aggressione transfobica da parte di un gruppo di ragazzi quando viveva in Nuova Zelanda e ne ha riportato un trauma cerebrale che è stato mal curato con conseguenze sulla sua personalità e sulla sua vita. Non sempre Texas riusciva a presentarsi agli appuntamenti e il budget limitato a mia disposizione per realizzare le riprese oltreoceano mi ha costretta a gettare la spugna con grande dispiacere.
Gendernauts e Genderation sono ritratti di persone in mutamento ma anche di una città i cui cambiamenti sono sintomi del presente. La sente ancora come casa?
San Francisco è molto cambiata in questi vent’anni soprattutto per effetto della vicina Silicon Valley, dove i giganti di internet hanno i loro quartier generali e dove sono subentrati giovani ricchi. La città è diventata ostile allo stile di vita bohemien e alle minoranze sessuali, è un enorme complesso capitalista con cantieri dappertutto e zone residenziali ripiegate su se stesse. Le persone amiche che ancora ci vivono faticano per poterselo permettere. Da europea trovo allarmante la velocità con cui una città può perdere l’anima. L’intera vita è strutturata dal digitale e dalle app e già prima della pandemia si era molto ridotta la possibilità d’incontrarsi in luoghi pubblici che è l’unica condizione per il progresso sociale. Lo spazio è un vero problema politico lì come altrove: è necessario lottare per difendere la possibilità di vivere con poco. Negli anni Novanta abbiamo avuto l’ingenuità di credere che il cyberspazio potesse essere una nuova frontiera piena di promesse e invece con il tempo ci siamo dovute arrendere alla realtà di corporation predatorie che si appropriano dei nostri dati, ci spiano e non pagano le tasse.
In Genderation c’è chi associa la dissidenza sessuale e di genere a cause nuove ma c’è anche chi, come Stafford, da persona non binaria che era oggi si presenta semplicemente come «un tipo qualsiasi» e si dedica al lavoro: militare stanca?
Stafford era fotograf* e oggi lavora nella logistica. È un essere umano molto affettuoso e solidale e bisogna tenere presente che appartiene alla working class, il lavoro non gli lascia molto tempo. Il fatto che non faccia più politica attiva come ai tempi di Gendernauts non può oscurare la generosità e la gentilezza della sua persona nella vita di tutti i giorni, nelle relazioni con le persone che frequenta. Anche questo fa la differenza.