In Rai imperversavano Sabani e Cutugno, ma la tv catapultava dagli Usa Rapper’s Delight degli Sugarhill Gang mentre al cinema trionfava Flashdance. Immagini e ritmi che innescano la scintilla dell’hip hop a Napoli: trent’anni di storia raccontati da Antonio Bove nel libro Vai mo (Monitor edizioni, 219 pag, 15 euro). ShaOne, Polo, Luca Zulu Persico, Speaker Cenzou, 13 Bastardi, Co’ Sang, Lucariello sono le punte di un movimento che ha attraversato l’intera città e messo radici in tutto l’hinterland. Il terreno era pronto: la tradizione dei cunti e delle fronne aveva insegnato a raccontare storie su ritmi battenti o ipnotici; il Neapolitan Power aveva dimostrato che si può incanalare la rabbia in musica; la base Nato di Bagnoli e la sua radio davano accesso al sound d’Oltreoceano. Così la città, attraversata dalle occupazioni e delle proteste ambientali, si apre al protagonismo di una nuova generazione che trova nell’hip hop il suo strumento espressivo.

È la storia di Napoli in rime, è la rabbia che diventa contest, è lo spazio urbano reinterpretato con strumenti nuovi: skateboard, writing, street dance e rap. Dai Colli Aminei si scende a Fuorigrotta, la cabina telefonica davanti alla metro è un campionario di tag. I treni della Cumana sono la tela su cui ci si cimenta ogni notte. L’area a est si ritrovava a San Giovanni, dove la crew Tck aveva avuto dal comune una biblioteca abbandonata che diventò la Sede. Storia di scontri e incontri con le Posse e i centri sociali, di rapporti difficilissimi con le major fino ai solisti come Clementino, a cavallo tra generi, fuori e dentro il mercato.