Pandemia a parte, sempre più in questi anni sono stati migliaia i ragazzi che hanno fatto esperienza dei «treni della memoria»: un viaggio di istruzione nei campi dello sterminio nazista che utilizza il treno non solo come mezzo di trasporto ma come strumento di formazione. L’idea del viaggio diviene così esperienza in sé, attiva percorsi di formazione, accoglie domande, invita alla riflessione. Propone un tempo sospeso che si tramuta in esperienza diretta.

IL «VIAGGIO della memoria» venne realizzato per la prima volta nel 1982 con una pionieristica iniziativa della Regione Toscana alla quale partecipò anche Primo Levi.
A dedicare oggi una riflessione a quell’esperienza con la passione dell’educatrice è Elena Bissaca in Chiedimi dove andiamo – Come raccontare Auschwitz ai giovani viaggiando sui treni della memoria (Manni, pp. 208, euro 17). «In questi anni – scrive l’autrice – numerose ricerche e contributi hanno riguardato i contenuti, i metodi e le priorità del fare memoria in Italia, eppure sembra essere sempre meno presente una riflessione sui giovani che scelgono di intraprendere i percorsi della memoria».

PER LA VERITÀ, sembra scarseggiare complessivamente l’analisi del feedback di quelle politiche sulle ultime generazioni e questo rende il libro di Bissaca di particolare interesse.
Il racconto procede «dalla parte» dei giovani e delle giovani. «Perché lo fanno? Cosa cercano? Che effetto hanno avuto su di loro venti anni di celebrazione del Giorno della memoria?». «Una memoria esemplare, capace di parlare anche a noi oggi, di impartire una lezione utile al presente – sostiene l’educatrice – che rivendica la portata ’politica’ di viaggi come quelli organizzati dall’Associazione Deina – deve stabilire con la storia un rapporto di dialogo, costruendo analogie equilibrate, deve avvalersi della comparazione, della messa in relazione degli eventi».

SI TRATTA DI SCALFIRE da un lato una sorta stanchezza «memoriale» che i ragazzi avvertono nelle ricorrenze ripercorse «dai palchi»; dall’altra, la scomposizione del paradigma vittimario che ha informato di sé le celebrazioni del 27 gennaio svincolando il «dovere di memoria» da quell’intento didascalico che porta al rischio – ben raccontato alcuni anni fa da Valentina Pisanty – di banalizzare la Shoah proprio mentre se ne sacralizza il ricordo e che contiene in sé, paradossalmente, il germe del negazionismo.
Ricevere i ragazzi al momento della partenza – reduci da una preparazione effettuata durante l’anno – implica accoglierne le domande anche quando sono difficili: i giovani, per esempio, sembrano cercare di comprendere più i carnefici che le vittime. Significa anche recepirne le paure («e se arrivo lì e non provo nulla?»), smontando «le regole del sentire socialmente condiviso» per dare spazio agli interrogativi di senso dei singoli. È un esercizio di empatia.

È NECESSARIO RICONOSCERE ciò che appartiene all’esperienza dei ragazzi «prima» di salire sul treno per offrire «poi» strumenti storici e culturali che aiutino a decifrare non solo quello che si sta vedendo, ma ciò che si sta vivendo. Significa, quindi, partire dalla ferma constatazione che «Auschwitz deve essere attraversato come il risultato di una concatenazione di eventi e responsabilità diffuse che affondano le radici nella storia lontana. E tuttavia – riflette Bissaca – storicizzare Auschwitz rappresenta una sfida per ogni insegnate o educatore proprio a causa della potenza emotiva della Shoah (…). Per questo motivo, la consapevolezza deve invece condurre ad una riflessione sul tema della responsabilità: lo studio dei processi storici alla base della ’soluzione finale’». «In questo senso – prosegue – Auschwitz è anche un luogo di formazione, ma lo è in potenza perché non basta vederlo per sviluppare memoria, consapevolezza e responsabilità».
Piccoli corsivi dei ragazzi intersecano l’analisi teorica: «Bisogna vivere, camminare, conoscere, visitare, leggere, guardare per capire quali condizioni politiche e sociali possano rendere un’intera società complice», scrive Francesca, Piemonte 2020. Alessia, Lombardia 2019, commenta invece: «Ti auguro di fare la differenza, nel tuo piccolo, per te stesso, per un amico, per un familiare, per una comunità perché questo viaggio ci ha ricordato quanto sia potente un gesto».