Da qualche tempo si è imposta una teoria critica basata sull’analisi dell’interazione tra gli individui e gli oggetti, che va sotto il nome di Thing Theory. Fondata sulla distinzione di Heidegger tra oggetti e cose (ovvero, ciò che gli oggetti diventano quando cessano di svolgere la loro funzione), la Thing Theory illustra un nuovo modo di interpretare la relazione tra mondo animato e inanimato, proponendo di guardare le cose come portatrici di storia e cultura, ma anche e soprattutto di pensiero, secondo le parole di William Carlos Williams, «No ideas but in things».

Stagno, opera prima della scrittrice inglese Claire-Louise Bennett, traduzione di Tommaso Pincio, Bompiani, pp. 156, euro  15,00) sembra un testo ideale per le esercitazioni critiche dei cultori della Thing Theory, denso com’è di riferimenti a oggetti, piante, elementi del mondo naturale, ma anche suppellettili domestiche, capi di vestiario, prodotti per l’igiene e persino rifiuti, sempre diligentemente differenziati. Le cose hanno un ruolo protagonista nel libro di Bennett, che consiste di una ventina di racconti – a volte solo schizzi, abbozzi senza trama, pensieri in libertà, frutto di quello che la narratrice definisce il suo «rimuginare». Anche se tutte le storie (tranne l’ultima) sono alla prima persona singolare e hanno per protagonista la stessa donna, non siamo di fronte a un novel in stories, poiché del romanzo mancano tanto il plot quanto una sia pur labile parvenza di logica connessione tra i capitoli o una cornice che li tenga insieme; e non potremmo neppure definire Stagno un esercizio di autofiction, anche se molti elementi del testo sono chiaramente autobiografici, e men che meno una collezione di saggi stravaganti, al modo di Geoff Dyer, visto che il mondo oltre la costa sperduta in cui la protagonista ha scelto di vivere è assente.

Fra intimità e esterni
Le sue meditazioni si concentrano sulle banalità del quotidiano e del privato, sul «guazzabuglio di granelli e pellicole e forcine» annidati negli anfratti «che si aprono ovunque tra le cose» e il cui «catalogo» si consegna «a quelle parti dell’immaginazione che aspettano solo di preparare una lurida pozione a base di grasso d’oca e sale marino non raffinato». La scrittura di Bennett è immaginifica, a volte barocca, spesso fumosa ai limiti del comprensibile, mentre tenta di trovare l’esatto correlativo oggettivo della propria attività mentale. In effetti, Stagno è solo apparentemente la storia del periodo trascorso da una donna sola in un cottage sulla costa orientale irlandese: è in gioco, piuttosto, il tentativo di mettere sulla carta il lavorio continuo di una mente a contatto con la natura, con la propria solitudine e, prima di tutto, con la casa in cui abita, vissuta al modo di Bachelard (che, non a caso, appare tra gli autori in esergo) come corpo di immagini «che danno all’uomo ragioni o illusioni di stabilità».

Forse proprio alla luce di Bachelard, la cui Poetica dello spazio è spesso citata dall’autrice come suo influsso fondamentale, che il libro di Bennett va letto, evitando il rischio di scambiarlo per un tanto pretenzioso quanto inutile esercizio di osservazione del proprio ombelico su sfondo rurale. Bennett tenta invece – e nei momenti migliori le riesce brillantemente – di rendere ragione di tutta «l’espansione del suo spazio intimo», mettendo a confronto, secondo il dettato di Bachelard, lo spazio dell’intimità e lo spazio esterno, fino a renderli consonanti. Non per caso, l’anonima narratrice vive da sola: quanto più la solitudine si fa profonda, ha osservato Bachelard, tanto più «le due immensità si toccano e si confondono (…) ogni oggetto investito dallo spazio intimo diventa, in questo coesistenzialismo, centro di tutto lo spazio. Per ogni oggetto, il lontano è presente, l’orizzonte ha tanta esistenza quanto il centro».

La banalità dei gesti
Una volta approdata al cottage sulla costa atlantica, la protagonista di Stagno trascriverà, secondo le sue stesse parole, «una zona tanto intima della mia personalità che prima di allora non avevo mai tentato di mettere linguisticamente a nudo». La parola definisce dunque questa donna prima ancora delle sue azioni o di qualsiasi descrizione. Di lei, del resto, si sa ben poco: è un’accademica priva di ambizioni, che anche quando lavora antepone il proprio vissuto emozionale ai «consueti modelli critici», rubacchiando «alla carlona dall’intera storia della letteratura occidentale» per suffragare le proprie tesi. Ha un vivace appetito sessuale, ma non crede nell’amore; non coltiva alcuna passione, sembra anzi appagarsi nella banalità dei gesti quotidiani più frusti: accendere il fuoco, rifare il letto, controllare la cassetta della posta, vuotare l’immondizia, farsi un caffè.

Non è un’emula di Thoreau, anche se il titolo inglese del libro, Pond, riporta alla mente il Walden Pond dello scrittore di Concord: non vive nei boschi per dimostrare la possibilità di una vita altra, autosufficiente, lontana dalle lusinghe e dal caos della metropoli. Al contrario, è una contadina mediocre e, per rifornirsi di cibo va in bicicletta al più vicino supermercato. Il titolo del libro non fa tanto riferimento a una pozza d’acqua quanto a un uso sbagliato delle parole. In un momento significativo del libro, la narratrice lamenta che la sua padrona di casa abbia piazzato un cartello con su scritto «stagno» accanto a un acquitrino presso la sua abitazione: «Dipendesse da me … ci scriverei qualcos’altro… o lascerei perdere proprio…. E in tutta franchezza mi sentirei disgustata al punto di ordire una vendetta immediata se in un pomeriggio di settembre inoltrato venissi condotta in un luogo di presunta magia e mi fiondassi sullo stagno, quasi certamente da sola, per scoprire la parola stagno scribacchiata in modo illeggibile su un misero e umidiccio pezzo di compensato lì accanto».

La lingua organica
L’essenza del libro sta nel desiderio di ridare senso alle cose rinominandole, guardandole, magari, dal punto di vista dell’infanzia; mettere in discussione (forse per ritrovarla) la «presunta magia» dei luoghi; riscoprirli in solitudine; recuperare la dignità della scrittura, per entrare in sintonia – nelle parole dell’autrice, rese con notevole abilità da Tommaso Pincio – «con il logos radicato nella terra». In questo senso, Stagno è anche come una sorta di rapsodia metanarrativa, orchestrata da una donna che, pur scrivendo in inglese, afferma di non riconoscerlo come sua prima lingua, e però di non riuscire a esternare nella scrittura la lingua che «cova nell’elastica oscurità degli organi tremolanti», dove pazientemente dobbiamo calarci per coglierne lo scintillio.