L’incontro tra Gideon Bachmann e Federico Fellini intreccia una di quelle belle e confidenziali storie del cinema italiano che in un recentissimo passato si chiamavano “segrete”. A chiarire il rapporto del regista romagnolo con gli Stati Uniti, al pari del tentativo del fotografo e giornalista americano di “carpire” i segreti della sua vita, è il risultato di una brillante conversazione, cominciata con una vigorosa stretta di mano e tenuta con Bachmann a margine della proiezione veneziana commentata della sua antologia fotografica Dietro le quinte di Otto e ½”.

La menzogna nel cinema italiano ha un solo nome: Federico Fellini. E questo non distolga dalla celebrazione del ventennale della sua morte. Ma e a tuo avviso, l’intera filmografia può e forse deve essere letta come un divertissement surrealista, pur declinato originalmente all’italiana ed in limine assurta essa stessa a parabola felliniana di un modo di giocare con la realtà?

E’ un ragionamento questo che suscita interesse. Comunque ritengo che agisse in lui una sensibilità che precedeva addirittura l’inconscio, la coscienza. Sappiamo quanto dava importanza ai sogni. Posso dire che personalmente mi mentiva sempre. Era un maestro della bugia. Ho bei ricordi. Quando ti parlava intimamente allora sì che incrociavi i suoi occhi. Forse era un modo di difendersi. Era bello vederlo con i suoi amici. Ad esempio ciò non si vede nel film di Scola (qualche giorno prima in pompa magna e alla presenza del capo dello stato nella Sala Grande del Palazzo del Cinema era stato presentato “Che strano chiamarsi Federico”) . La timidezza di Fellini non c’è. Mentre, se si guardano bene i suoi film, talvolta la si comprende, soprattutto nelle stravaganti elucubrazioni dei suoi personaggi.

Hai conosciuto Fellini al tempo del primo Oscar assegnato a “Le notti di Cabiria”, come fu accolto in America?

Allora e si era nel 1956, nessuno in America aveva mai sentito parlare di Fellini né dei suoi film. Solo con l’uscita della “Dolce vita” all’improvviso al di qua dell’Oceano Atlantico ci accorse della presenza di un grandissimo cineasta.

Tu contribuisti non poco …

Sono state le fortuite coincidenze della vita. Ci fu chi si ricordò del mio incontro a New York con lui come la direzione della rivista “Life” che mi commissionò un servizio fotografico. Mi chiese di riprenderlo sui suoi set a Cinecittà. Già allora si vociferavano storie e leggende sul suo modo di girare. In seguito una casa editrice mi domandò se avessi l’intenzione anche di realizzare un libro. Andai a Roma, era il 1962, doveva essere appena cominciato l’autunno e mi trovai in mezzo al set di “8 e ½”. Lì, divenni suo amico e mi prese l’idea di conoscere e scrivere la sua storia. La storia della sua vita.

Ma, tornando al 1956, come fu accolto da Hollywood.

Non andò a ritirare il premio. A New York fu bloccato da una tormenta di neve e anche quando il maltempo cessò vi rimase per circa dieci giorni. Visitò tutti i quartieri, il Bronx lo colpì molto; conobbe artisti ed intellettuali, alcuni miei amici, come Warhol e Allen Ginsberg, la Sontag e Shirley Clarke e fotografi e filmaker come Robert Frank e Jonas Mekas.

In questi salti temporali che abbiamo adottato come bussola di orientamento, quale fu il tuo ruolo e come ti trovasti nel confusionario e leggendario caravanserraglio di “8 e 1/2 ”?

C’era una confusione pazzesca. Ma assolutamente governata da Fellini.

Scusami, se t’interrompo. Fellini aveva la consapevolezza di girare un capolavoro? Il film stava arrivando dopo un altro capolavoro come “La dolce vita”?

Difficile dirlo. Ogni artista come ho detto ha il proprio grado di sensibilità e forse anche di consapevolezza, ma su un set le variabili sono tante che qualche insicurezza su ciò che si sta realizzando la si può avere.

E sul set…

Scattai quasi tremila foto (ora depositate negli archivi di Cinemazero a Pordenone con altri lavori su Pasolini, la Cavani dello stesso Bachmann e della moglie Deborah Beer). Non ero il fotografo ufficiale del set. Non era mio compito fotografare le scene del film. Al contrario, cercavo di biografare con la macchina fotografica quei momenti che Fellini e i suoi collaboratori, gli attori e gli ospiti vivevano lì nelle pause e nelle prove del film. Fu allora, che m’innamorai di Roma tanto da viverci per quasi quaranta anni.

Sempre allora chiedesti a Fellini di scrivere la sua biografia?

Sì, Fellini mi consentì di registrare la storia della sua vita. Ma, soltanto tre anni dopo “8 e ½”. Lo intervistai per circa cinque ore. Purtroppo quei nastri furono rubati. Non ebbi più modo di intervistarlo ancora.

Leggo dalle tue note che usavi una Minolta SR-2 (single lens reflex 35mm) e che rappresentava una novità per le macchine fotografiche del tempo.

Mi era stata prestata da Shirley Clarke. Consentiva delle prestazioni molto interessanti, ma forse è più interessante il ricordo che utilizzavo l’avanzo di pellicola del film che recuperavo dalla Mitchell di Gianni Di Venanzo. Le foto che scattavo venivano sviluppate con la pellicola stessa con cui si filmava “8 e ½”.

Poi, ci fu la rottura. Non vi parlaste per molti anni.

Sì, non ci parlammo per circa sette anni. Presso a poco dal tempo di “Satyricon”. Doveva essere il 1969. Avevo realizzato il documentario “Ciao Federico” proprio sul set di quel film. Era mio intendimento rivelare tutti gli aspetti della lavorazione e non solo. Insomma, non gli era piaciuto; secondo lui non era felliniano. Risposi, infatti, che era mio.

Allora, quando vi siete riappacificati, Fellini aveva appena licenziato due suoi capolavori come “Roma” e “Amarcord” e si apprestava con “Il Casanova” e “Prova d’orchestra” ad entrare negli anni 80 che in prospettiva storica oggi rappresentano il suo canto del cigno triste e crepuscolare per un cinema sempre più squassato dalla rivoluzione commerciale televisiva e in più da un mondo che sembra non capirlo. Al contrario come testimonia Verdone e’ Fellini a non capire più il mondo e gli uomini e le donne di quel tempo.

Purtroppo, si trascinava problemi di salute e invecchiava male. La decadenza era iniziata già con “La città delle donne” e con “Ginger e Fred” il progressivo distaccamento dalla realtà si stava consumando.

Invece il cinema mi pare di capire che secondo te e’ ancora al centro del suo progetto artistico ed intellettuale. I riconoscimenti si susseguono e vengono trasformati come gli inizi in una favola sempre più bugiarda e immaginifica. Un sogno continuo sul quale scrivere e filmare la sua immagine di vita e di arte.

Ora che ho raggiunto gli ottanta anni, la sua età di allora, comincio a capirlo: il cinema, i set, gli attori, quello era il suo mondo.