Il castello di carte di Obama è stato soffiato via da una stretta di mano. Quella che ha siglato il patto di non aggressione di cui ha dato conto ieri l’Osservatorio Siriano per i diritti umani, organizzazione da anni impegnata in una dura campagna contro il presidente Assad. Non certo amici di Damasco. Secondo quanto riferito, venerdì a Hajar al-Aswad, sobborgo sud della capitale e roccaforte ribelle, i miliziani dell’Isis hanno firmato con le opposizioni moderate e islamiste un accordo di cessate il fuoco: le parti «prometono di non attaccarsi perché considerano il regime Nussayri [termine con cui si indica la setta alawita, di cui la famiglia Assad è parte, ndr] il principale nemico».

A fare da moderatore dell’accordo, il Fronte al-Nusra, formazione di ispirazione qaedista che negli ultimi mesi si è scontrata con i miliziani di al-Baghdadi e, come gran parte degli altri gruppi di opposizione, ha perso significative porzioni di terreno a nord ed è stata costretta a ritirarsi verso sud. A disturbare i sonni di Obama è però la partecipazione al patto del Fronte Rivoluzionario Siriano, gruppo collegato all’Esercito Libero, braccio armato della Coalizione Nazionale, che da due anni l’Occidente considera la sola legittima rappresentante del popolo siriano. Quella su cui da anni piovono denaro e armi, spesso finite ai qaedisti prima e all’Isis poi.

Il Fronte Rivoluzionario, che conta circa 25mila combattenti e i cui leader hanno stretti legami con la Coalizione, era stato definito pochi mesi fa dalla stampa Usa «la migliore opzione armata contro i gruppi islamisti in Siria» perché non solo si sa vendere come moderato, ma sa anche combattere. Eppure i campanelli di allarme non mancavano. Più volte il gruppo ha ripetuto di «non voler scontrarsi con al-Qaeda e di non avere problemi con nessuno di quelli che si battono contro il regime».

La notizia è un fulmine a ciel sereno per Washington che ha trascorso l’ultima settimana a plasmare una coalizione di volenterosi in funzione anti-Isis. Da ultima la riunione a Jeddah, in Arabia saudita, dove nove paesi arabi – Giordania, Turchia, Egitto e le sei petromonarchie del Golfo – hanno accettato di dare il proprio contributo, che nella pratica si traduce in un maggiore sostegno alle opposizioni anti-Assad. Di parole tante, di fatti pochi: la Turchia, dopo aver strepitato tre anni per lanciarsi nella spedizione anti-Assad e poi auto-relegarsi in un angolo del fronte anti-jihadista, veniva nuovamente accusata ieri di permettere il passaggio di estremisti. Lo ha detto alla Cnn Hamad al-Tamimi, membro dell’Isis arrestato dalle truppe irachene: il territorio turco è il punto di transito preferenziale verso la Siria «perché è come se la frontiera non esistesse».

E mentre si diffondono notizie così poco confortanti, Obama resta in attesa che il Congresso sblocchi 500 milioni di dollari per il finanziamento di un nuovo programma di addestramento e armamento di quei gruppi siriani che oggi siedono al tavolo con l’Isis. Ieri il portavoce del Pentagono, John Kirby, ha precisato che l’obiettivo è addestrare oltre 5mila combattenti in un anno, con il sostegno dell’Arabia saudita.

La Casa Bianca aveva già messo le mani avanti nei giorni scorsi, in risposta alle accuse di incapacità di verificare a chi effettivamente finiscono le armi occidentali: stavolta – aveva assicurato Washington – sosterremo solo gruppi affidabili grazie al miglioramento dell’attività di intelligence. «Lavoriamo con l’opposizione siriana da due anni, fornendo loro assistenza sia non letale che militare – ha detto pochi giorni fa Ben Rhodes, consigliere alla sicurezza nazionale – Oggi li conosciamo molto meglio di un anno o due anni fa».

Ma il problema è un altro: i critici della strategia mediorientale Usa non mettono in discussione la capacità dei servizi segreti di sapere chi si muove sul terreno e con quali scopi, ma il fatto che dal 2003 l’intervento statunitense sia stato espressamente volto alla crescita di gruppi islamisti con il fine di distruggere l’asse sciita guidato dall’Iran e spartire definitivamente l’Iraq. La strategia della divisione che tanto piace agli Stati uniti puntava ad una guerra civile in Siria su tre fronti: Damasco, Isis e moderati che si combattessero a vicenda e tra i quali sarebbe stato facile scegliere i fortunati vincitori dell’assistenza occidentale. Ma quello che si prefigura dopo il patto di non aggressione è uno scontro a due: Assad contro le opposizioni, tutte, dall’Isis all’Esercito Libero. E ora giustificare gli aiuti militari diventerà certo più difficile.

Per l’Iran le intenzioni Usa sono cristalline: ieri il segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, Ali Shamkhani, è tornato ad accusare la Casa Bianca di violare la sovranità della Siria «con il pretesto di combattere il terrorismo» e di «equipaggiare i terroristi per far cadere il regime legittimo». Intanto in Iraq, proprio per arginare i settarismi e riavvicinare le comunità sunnite a Baghdad, il neopremier al-Abadi ha ordinato all’esercito di non bombardare più le postazioni jihadiste in aree popolate da civili per evitare «vittime innocenti».