Diversi giornali italiani, commentando il ‎«ritorno della calma» lungo le linee tra Gaza e ‎Israele, ieri sottolineavano che l’hudna (tregua) favorita dalla mediazione egiziana «è ‎desiderata da israeliani e palestinesi». Aggiungevano che il Cairo continua le trattative ‎dietro le quinte per arrivare a un cessate il fuoco di lunga durata volto anche ad alleviare, ‎con aiuti e investimenti, l’emergenza umanitaria di Gaza e garantire a Israele la ‎«tranquillità ‎ai confini meridionali». Per capire come stanno davvero le cose questi giornali dovrebbero ‎piuttosto dare ascolto alle parole di Benyamin Netanyahu. Il premier ieri cantava vittoria. ‎Per il premier le forze armate israeliane hanno inflitto tra martedì e mercoledì ‎«il più duro ‎colpo‎» alle organizzazioni palestinesi a Gaza, durante l’escalation militare più seria dai ‎tempi dell’offensiva “Margine Protettivo” del 2014. ‎«L’esercito ha risposto con forza al ‎fuoco dalla Striscia di Gaza con attacchi contro decine di obiettivi delle organizzazioni ‎terroristiche», ha proclamato con soddisfazione. Certo il governo israeliano non ha ‎interesse, almeno in questa fase, ad innescare un nuovo conflitto come quello di quattro ‎anni fa. I razzi palestinesi provocano scarsi danni materiali ma costringono migliaia di ‎israeliani residenti nei centri vicini a Gaza a cercare riparo nei rifugi. Allo stesso tempo ‎Israele non ha alcuna intenzione di modificare la sua storica strategia verso i palestinesi e ‎Paesi arabi, il “muro di ferro”- la legge del più forte, la politica del fatto compiuto ad ‎imporre agli avversari – e di andare alla radice della questione. Perciò Gaza è e rimarrà una ‎enorme prigione in cui resteranno sigillati i suoi 2 milioni di abitanti e il movimento ‎islamico Hamas. ‎

‎ La linea del governo Netanyahu nei confronti di Gaza resterà quella che abbiamo visto in ‎queste ultime ore e nelle settimane passate durante le manifestazioni della Grande Marcia ‎del Ritorno. Ieri è spirato a Gaza Naji Ghonaim, 23 anni, ferito dalle forze israeliane lungo ‎le linee di demarcazione. Con la sua morte sale a 118 il bilancio dei palestinesi uccisi dal 30 ‎marzo‎. Se i palestinesi resteranno ‎«tranquilli» e non si opporranno in alcun modo alla loro ‎condizione di prigioneri di fatto, grazie alla ‎«mediazione» egiziana e ai soldi dell’Ue, del ‎ricco Qatar e di altri ancora, allora prenderanno il via progetti mirati ad alleviare la ‎mancanza di elettricità, la scarsità di acqua potabile, il collasso del sistema sanitario e gli altri ‎mille problemi che vivono a Gaza. La libertà la gente di Gaza dovrà dimenticarla, come ‎prova la spedizione pacifica dei 17 palestinesi che martedì sono saliti a bordo di ‎un’imbarcazione con l’intento di raggiungere Cipro e che sono stati fermati e arrestati, non ‎in acque israeliane, dalla Marina dello Stato ebraico che attua un rigido blocco navale ‎davanti alla Striscia. Uso della forza ma anche colonizzazione incessante. Una commissione ‎del ministero della difesa israeliano ha dato il via libera alla costruzione in Cisgiordania di ‎‎2037 case per i coloni annunciate la settimana scorsa dal ministro Avigdor Lieberman. Di ‎queste, 775 hanno avuto l’approvazione finale, mentre altre 1.262 devono completare l’iter ‎previsto dalla legge israeliana. Legge che si scontra con il diritto internazionale che vieta la ‎costruzione di insediamenti coloniali in territori occupati militarmente.‎

‎ L’ultima fiammata di guerra, conclusa alle 4 di ieri, pone interrogativi non secondari ‎anche in casa palestinese dove la strategia attuata da Hamas negli ultimi due mesi – ‎privilegiare la mobilitazione popolare e, congelare, almeno per ora, la lotta armata – è stata ‎messa in discussione dalla decisione del Jihad islami di vendicare, con il lancio di colpi di ‎mortaio e poi anche di razzi, i suoi tre uomini uccisi domenica da una cannonata israeliana ‎sapendo che avrebbe innescato la reazione israeliana (dozzine di bombardamenti aerei). ‎Una scelta, spiegano a Gaza, non condivisa da Hamas ma che la leadership del movimento ‎islamico non ha potuto impedire – per ragioni di consenso interno – pur sapendo che ‎avrebbe minato l’immagine positiva della protesta popolare in corso nelle ultime settimane ‎lungo le linee con Israele. ‎