La Nuova Zelanda ha creato una categoria di censura, su misura, per la serie televisiva di Netflix «13 ragioni perché». La sua visione è stata interdetta ai minori di 18 anni che non sono in compagnia di un adulto. La serie, tratta dall’omonimo best seller di Jay Asher, parla delle ragioni che hanno spinto al suicidio Hannah, una ragazza vittima di stupro.

La Nuova Zelanda ha il più alto tasso di giovani suicidi tra i paesi di Ocse. Si uccidono in media due a settimana (soprattutto tra i 16-17 anni). La decisione sulla censura, è stata presa dopo che diversi organismi di salute mentale hanno sostenuto che la serie glorifica il suicidio e potrebbe indurre azioni imitative. Secondo i censori il suicidio della giovane protagonista è trattato «fatalisticamente» e la sua morte presentata come logica, inevitabile conseguenza dello stupro.

Secondo l’ «Ufficio di Film e Letteratura» di Nuova Zelanda è estremamente dannoso presentare lo stupro come ragione «sufficiente» perché si commetta suicidio. Le persone si uccidono a causa di una malattia mentale e non semplicemente perché qualcuno è stato crudele con loro e dopo un ragionamento lucido. La serie manderebbe un messaggio sbagliato alle vittime di violenza sessuale.

Le autorità neozelandesi hanno agito sulla base di una preoccupazione reale e nell’intento di limitare possibili danni. Ci si può chiedere, tuttavia, se pure il loro non sia un messaggio sbagliato. Non sembra che conoscano il meccanismo di diffusione (per apparente imitazione) di una patologia psichica.

Quando il nostro apparato psichico è in assetto difensivo, rigido, perché non riesce a far fronte a condizioni di perturbazione del nostro rapporto con la realtà, ricorre a soluzioni che mirano a liquidare le tensioni, piuttosto che a trovare vie d’uscita realmente valide. Soffre di miopia: si accontenta del sollievo immediato, ma si infligge distorsioni che, se si stabilizzano, compromettono il suo futuro, la creatività e la sanità del suo funzionamento.

Le distorsioni che appartengono alla storia individuale sono personali sul piano delle perturbazioni dello sviluppo che le fanno nascere, ma impersonali, universali sul piano degli meccanismi difensivi con cui si estrinsecano. Gli individui che ne soffrono si identificano silenziosamente tra di loro perché così le legittimano e le consolidano. La condivisione cementa il carattere impersonale delle loro difese e la sua falsa percezione come solidità. Le identificazioni selezionano gli schemi protettivi che sembrano più rassicuranti. Questi, se le condizioni sociali li favoriscono, si diffondono collettivamente. Quando gli schemi mostrano la loro inadeguatezza e cedono, facendo esplodere la malattia, essa si trasmette attraverso la rete delle identificazioni non solo tra gli individui più strutturalmente malati, ma anche tra coloro che ne sono contaminati in modo più congiunturale.

Pensare di colpire la trasmissione della malattia, censurando i media che potrebbero facilitarla, senza curarsi dell’identificazione che ne costruisce le premesse, è come impedire l’accesso a un campo minato a chi ci abita, senza pensare di bonificarlo. Le autorità neozelandesi e tutti noi dovremmo chiederci cosa facilita la diffusione collettiva della depressione, tenendo conto del fatto che la semplice censura di un fenomeno facilita la sua espansione.

Che gli adolescenti, e non solo loro, possano uccidersi, a causa di una violazione grave del loro desiderio, in assenza di malattia mentale, dovrebbe essere a tutti chiaro. Come pure il fatto che gli adolescenti si sentono violentati dal nostro modo piuttosto alienante di vivere.