Hanno ragione Guido Viale e Tonino Perna. Non c’è logica razionale che giustifichi le scelte delle imprese che operano nel girone infernale del “libero mercato”. Ho calcolato più volte che un elettrodomestico che duri più a lungo (circostanza del tutto realizzabile) farebbe bene ai lavoratori (meno ore di lavoro necessario a pari produttività), ai consumatori (meno spese), all’ambiente naturale (meno impiego di materie prime, meno energia, meno rifiuti) e pure agli imprenditori che potrebbero ottenere gli stessi profitti diminuendo i costi di produzione. E questo vale per tutti i settori produttivi di oggetti e servizi di largo consumo.

Perché allora le industrie non scelgono questa strada preferendo accelerare vertiginosamente il ciclo Denaro-Merce-Denaro? Perché, in realtà, non è l’industria a condurre le danze, ma la finanza. Perché non è il “giusto profitto” che viene cercato, ma il più alto e rapido Roi (Return On Investment), ovvero il tasso di rendimento dei capitali investiti. Per assurdo, questa logica non guida solo i finanziatori (fondi di investimento, gestori del risparmio, banche e strozzini di vario tipo), ma gli stessi amministratori delle imprese che vengono remunerati non in ragione dei risultati produttivi raggiunti, ma in azioni e bonus sul valore di borsa delle imprese.

Vale così anche per i governi degli stati strangolati dai debiti e costretti a cercare sul mercato del denaro sempre nuovi prestiti. Quindi, la prima azione necessaria per far rientrale l’economia in un sentiero di sostenibilità sarebbe quella di liberarla dalla morsa finanziaria. Tagliare gli artigli alle rendite parassitarie, inique e pericolose, come dimostrano le periodiche esplosioni di “bolle” e di crisi di solvibilità che finiscono per mandare a picco quelle imprese meno capitalizzate che operano fuori dai grandi circuiti oligopolistici transnazionali. Le soluzioni normative ci sarebbero tutte: ripubblicizzazione del credito, sovranità monetaria, politica fiscale.

Ma non basta. Per scongiurare il collasso ecologico servono altre due azioni. È necessario ridurre comunque e rapidamente il volume complessivo dei prelievi di materie prime. Ricordo che la produzione di oggetti ha superato le 30 Gigatonnellate all’anno, che è come se ogni persona impiegasse ogni settimana una quantità di cemento, metalli, legno, petrolio e altro pari al proprio peso corporeo (Global human-made mass exceeds all living Biomass, in Nature, vol. 588, 2020). Una follia che compromette gli equilibri ambientali e mette in pericolo lo stesso sviluppo economico, come dimostrano le conseguenze del cambiamento climatico e le stesse pandemie da zoonosi.

Occorre quindi bilanciare la riduzione dello sforzo produttivo della megamacchina industriale compensando la diminuzione del volume complessivo del tempo di lavoro impiegato con forme di attività più utili alla società (oltre che all’ambiente), più soddisfacenti per i lavoratori e le lavoratrici chiamati a svolgerle e comunque remunerate dignitosamente.

Anche qui le soluzioni ci sono tutte: diminuzione e redistribuzione degli orari di lavoro, introduzione di qualche forma di reddito di esistenza incondizionato, massiccia conversione delle attività economiche a favore di quelle a maggiore intensità di lavoro (vedi agroecologia, cura delle persone, manutenzioni, autoproduzioni, recupero dei beni non utilizzati…), messa a disposizione di mezzi di produzione anche a chi non ha capitali a disposizione.

Infine, il terzo e il più difficile cambiamento è di tipo culturale: comprendere che un pianeta rigenerato nei suoi cicli vitali non è solo più bello, ma è anche più ospitale, più sano, più ricco di opportunità, più piacevole da abitare. La “transizione ecologica” è liberazione da una condizione umana stressata e alienata e riconquista di una dimensione di vita piena, pulita, pacifica. Il rispetto della natura non richiede alcun sacrificio, alcuna rinuncia se non a quelle attività che ci fanno ammalare, a quei consumi che inquinano l’aria e le acque, a quelle “comodità” che ci instupidiscono e ci rendono pedine passive di interessi a noi estranei.

Pensiamoci bene; ci sono tre capitoli di spesa che il sistema economico dominante non riduce mai: le spese militari (il bastone), la pubblicità (la carota) e la farmaceutica (le pillole per farci credere di curare i mali della società).