La rabbia della gente è esplosa subito, accesa dal sangue che lo Stato Islamico ha riversato sulla festa di fine Ramadan, l’Eid al-Fitr. L’ennesima profanazione della cultura, la storia e la religione di un popolo devastato da decenni di conflitti e occupazioni straniere è arrivata ieri a bordo di un furgone imbottito di esplosivo. Alla vista di tanta morte molti hanno preso d’assalto auto parcheggiate, risparmiate dalla bomba, per sfogare un’impotente ira.

Oltre cento morti, 120 dicevano ieri fonti mediche, bilancio destinato a salire: un numero imprecisato di civili si troverebbe ancora sotto le macerie dopo che un kamikaze ha violato il mercato di Khan Beni Saad, città della provincia di Diyala a 30 km da Baghdad. Diyala, il luogo che il sedicente califfo al-Baghdadi sogna come confine occidentale del suo impero, che dall’ovest dell’Iraq dovrebbe arrivare ad un altro simbolo della Storia mediorientale, Aleppo, in Siria.

Le notizie che giravano venerdì sera nei media raccontano l’orrore: il mercato è scomparso, centinaia di auto sono andate a fuoco, crateri hanno sostituito le strade. Venditori ambulanti hanno svuotato le casse di pomodori per portare in salvo i bambini feriti o per trasportare i loro corpi senza vita. Secondo la ricostruzione della polizia, l’uomo a bordo di un piccolo furgone si è spinto fino al centro del mercato prima di farsi saltare in aria, durante l’ora del tramonto, in mezzo alla folla in festa.

E mentre Khan Beni Saad si trasformava, insieme al suo Eid, in un incubo, in rete lo Stato Islamico rivendicava l’attacco: a bordo del furgone, scrive l’Isis, tre tonnellate di esplosivo hanno vendicato i sunniti di Hawija, città a nord del paese più volte target dei raid Usa. A poco serviranno le parole delle istituzioni irachene, per placare la rabbia di un popolo sempre più diviso: ieri il presidente del parlamento, Salim al-Jabouri, ha attribuito la responsabilità dell’attentato alla «disgustosa catena settaria» che investe l’Iraq del dopo-Saddam e promesso di fermare l’Isis.

Ma che la provincia di Diyala non sia mai stata stabilizzata è un dato di fatto: passata da maggioranza sunnita a maggioranza sciita durante gli anni dell’invasione Usa, parzialmente occupata dagli uomini dello Stato Islamico lo scorso anno, era stata quasi del tutto liberata dalle forze governative poco tempo dopo, grazie al sostegno dei peshmerga del Kurdistan iracheno. Ma le violenze non sono mai cessate e, con frequenza regolare, scoppiano scontri tra forze di sicurezza e islamisti che tentano la via verso Baghdad. E la rabbia e l’impotenza per chi ha perso il controllo della propria vita vengono riversati sul governo centrale: «La gioia per l’Eid si è trasformata in dolore, abbiamo perso le nostre famiglie, i nostri amici, e tutto perché il governo ha fallito nel darci sicurezza», gridava ieri un residente di Khan Beni Saad dopo l’attacco.

Inutili le misure successive all’attentato: le autorità hanno posto nuovi checkpoint, dispiegato soldati e previsto ulteriori misure di sicurezza, ma resterà difficile evitare simili carneficine fino a quando dal paese non sarà sradicato il cancro del califfato e le ragioni dietro il suo successo militare e di propaganda. Ovvero le divisioni settarie interne all’Iraq del post-occupazione Usa, il sentimento radicato di discriminazione provato dalla comunità sunnita che la spinge sempre più lontano da Baghdad, la perdita dell’identità nazionale per cui Saddam aveva dato vita ad una complessa struttura di controllo, repressione e inclusione politica.

E, al di fuori, da frenare c’è la più ampia disgregazione mediorientale figlia dei fragili equilibri di potere di una regione in guerra civile e dei conflitti per procura tra i troppi attori regionali e internazionali.

E proprio alla comunità internazionale si è voluto rivolgere ieri il più potente religioso sciita del paese, che già ha più volte messo a disposizione la propria voce per compattare la popolazione contro la minaccia islamista. Il gran Ayatollah Ali al-Sistani – molto più ascoltato del presidente o del primo ministro, tanto da aver dato vita con una fatwa del 2014 alle Hashed al-Shaabi, le unità sciite di mobilitazione popolare, oggi in prima linea contro l’Isis – ha fatto appello al mondo perché siano inviate armi più moderne all’esercito, che possano competere con quelle in mano all’Isis.

E si è appellato anche ai paesi vicini, in particolar modo – pur senza citarla – alla Turchia: chiudere i confini per impedire l’arrivo di altri rinforzi stranieri nel gran calderone della propaganda islamista. Infine, si è rivolto al suo popolo: «Non si tratta solo di sciiti. In questa battaglia ci sono sciiti, sunniti, cristiani, yazidi. Ho visto combattenti sunniti nel mio ufficio. Questa non è una battaglia settaria». O almeno, non lo dovrebbe essere.