Nel maggio del 1937 centinaia, quasi sicuramente migliaia di persone furono uccise al monastero di Debra Libanos in Etiopia su ordine del Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. È uno dei tanti massacri coloniali italiani, uno dei più simbolici, eppure a molti questo nome, Debra Libanos, non dirà molto. Di questo e altri episodi parla If Only I Were That Warrior di Valerio Ciriaci, un film importante che viene presentato questa settimana al festival dei Popoli di Firenze – festival che come al solito presenta un programma di alta qualità. È un paese, il nostro, che con quella parte del proprio passato proprio non riesce a farci i conti, forse perché non ci prova neppure. Per assurdo c’è voluto un monumento ad un criminale di guerra, Rodolfo Graziani, per far tornare, per poco tempo, il colonialismo italiano ad un minimo di risonanza in Italia e nel resto del mondo. Proprio il contestato mausoleo è uno dei tre fili conduttori del film che ha una parte italiana che si concentra appunto su Affile e su Roma, una filmata negli Stati Uniti e una in Etiopia. Il film comincia con la voce fuori campo di Mulu, una donna etiope in Italia dal 1992, che parla in radio mentre scorrono le immagini prima dell’Etiopia, poi del monumento a Graziani, e poi di Roma. Non è un caso che la prima voce, la prima lingua, che sentiamo sia una voce etiope: il film, uno dei primi documentari sul colonialismo italiano, vuole restituire questa mancanza, dare voce a chi per più di 70 anni non ne ha avuta una nel dibattito pubblico italiano, e legare subito gli altipiani etiopi dove i massacri si compirono e la capitale dell’impero da dove gli ordini di morte partivano.
Abbiamo raggiunto telefonicamente Valerio Ciriaci, giovane regista del film che vive a New York, per farci raccontare com’è nato il film: «Nel febbraio del 2013, dopo che il mausoleo a Graziani era stato costruito e erano montate un po’ di polemiche anche all’estero, andai ad una conferenza a New York organizzata dal Centro Primo Levi, dal John D. Calandra Italian American Institute, e dal la comunità etiope della città. Si parlava in generale di Graziani e delle responsabilità italiane coloniali, non solo del mausoleo. Lì ho preso i primi contatti con la comunità etiope che si stava mobilitando, anche con proteste alle rappresentanze diplomatiche qui a NYC. È nata lì l’idea del film, non volevo fare solo un documentario storico, volevo ancorarlo al presente e l’ho potuto fare attraverso questa protesta»: la vicenda del mausoleo a Graziani quindi fa da filo conduttore per raccontare il colonialismo italiano, per parlare delle comunità etiopi-americane e italo-americane e del loro rapporto con i paesi di provenienza, per provare ad entrare nel rimosso e nel complicato rapporto col passato dell’Italia di oggi. Il film, realizzato da un piccolo team composto principalmente da Ciriaci e dal produttore Isaak Liptzin, ha comportato un notevole sforzo produttivo per una produzione indipendente ed è stato finanziato in larga parte grazie ad una sottoscrizione su Kickstarter, che, continua il regista, «è stata importante non solo da un punto di vista economico, ma anche perché il fatto che tutti i finanziatori diventassero produttori del film ci ha messo una positiva fretta».
Il film come si diceva intreccia soprattutto tre storie. Negli Stati Uniti Ciriaci e la sua piccola troupe seguono Nicola, un italo-americano figlio di coloni italiani poi emigrati negli USA, che decide di riscoprire il passato coloniale italiano e partecipa solidale ad incontri delle comunità etiopi-americane scandalizzate dalla costruzione del mausoleo. In Etiopia, seguiamo un italiano che lì vive, appassionato di storia che colleziona materiale dell’epoca, mentre oltre a Mulu nella parte italiana incontriamo anche diversi proponitori, tra cui il sindaco di Affile, del mausoleo. Nel film non ci sono dunque solo anti-fascisti, anti-colonialisti, etiopi e italo-americani volenterosi di scoprire il proprio passato, anche quello scomodo. Ci sono anche quelli che considerano Graziani un eroe, e non mancano personaggi orgogliosi di essere italiani e del nostro passato coloniale. Ciriaci li racconta con umanità, non attraverso un becero ideologismo, al massimo facendo sfumate il sindaco di Affile che glorifica Graziani su musica tradizionale etiope. «Non abbiamo però riscontrato in Italia un vero e proprio astio verso il nostro progetto, ma piuttosto sorpresa per occuparci di cose successe così tanto tempo fa in un passato di cui si parla poco. Ma anche in Etiopia, dove abbiamo fatto molte interviste che non sono finite nel film (abbiamo circa 100 ore di girato), c’era sorpresa, e non è sempre stato facile farli parlare di un periodo molto lontano di cui le nuove generazioni sanno proprio poco. È stata una fortuna trovare uno storico come Ian Campbell, tra i massimi esperti del tema, che vive in Etiopia». I cui libri meriterebbero forse una migliore distribuzione, essendo stampati (in inglese) da una casa editrice universitaria di Addis Abeba con purtroppo scarsa reperibilità.
Il colonialismo italiano è un fenomeno eterogeneo, come tutti i colonialismi, e con durate variabili. Si passa dal corno d’Africa, dove si segnala una presenza italiana sin da pochi anni dopo l’Unità d’Italia, a Libia e Dodecaneso (Grecia) invase nel 1911, fino alla concessione di Tientsin in Cina, questa una storia davvero ignota ai più. L’Albania poi, non una colonia ma un regno associato a quello d’Italia dal 1939 al 1944, dove però i legami tra i due paesi sono molto più forti di questi pochi anni. Anche l’Etiopia italiana dura solo cinque anni, dal 1936 al 1941, ma ne rimangono forti i segni nel paesaggio etiope, non solo nella capitale ma anche nelle campagne dove si combatterono battaglie lunghe e sanguinose. In Etiopia, a fine ottocento, l’Italia ha perso la battaglia di Adua, seconda nell’immaginario italiano forse solo a quella di Caporetto. Alcune delle scene più belle del film sono proprio in queste campagne etiopi, in un cimitero italiano, sui ponti dove corre la macchina del protagonista italiano in Etiopia, che racconta come «gli etiopi, nei confronti degli italiani, non hanno nessun risentimento», gli piacciono il caffè e la pasta, qui «ti senti un pochino a casa tua». Come spesso capita, i legami che si formano tra colonizzati e colonizzatori non sono tutto bianco e nero, e come sempre capita i colonizzatori sono pronti ad auto-assolversi. Il film mantiene un suo equilibrio lirico, alterna interviste (quasi mai il classico mezzo busto) a scene e particolari attentamente ricercati, con occhio attento ma mai sopra le righe: c’è una storia da raccontare, o meglio ce ne sono alcune che si intrecciano, questo è sempre chiaro nel corso dei 70 minuti.
È un film che va sostenuto e fatto vedere. Dopo l’anteprima ai Popoli (proiezione il 28 novembre allo Spazio Alfieri) If only I were that warrior andrà a Como (8 dicembre), Milano (Zona K, 10 dicembre) e Roma (Casa della memoria e della storia, 11 dicembre), sempre accompagnato da Ciriaci e Liptzin. I dettagli si trovano sul sito (http://ifonlyiwerethatwarrior.com) dove si possono anche contattare gli autori per organizzare una proiezione.