«Più affonda nel passato, più Rosita Copioli si inoltra nel futuro: un futuro che noi non conosciamo, e che lei conosce perfettamente: il regno di Utopia, quello di Browne e di Blake è il suo regno personale». Quest’osservazione di Pietro Citati, tratta dall’autorevole prologo, basterebbe da sola a inquadrare Le figlie di Gailani e mia madre, edito da Franco Maria Ricci nell’elegante collana «Il labirinto scritto» (pp. 136, € 30,00). Si tratta di un libro difficile da definire (atipico poema o romanzo in versi?), che presenta qualche analogia con il modello bertolucciano della Camera da letto, soprattutto per il motivo ricorrente delle reminiscenze familiari, anche se i referenti vanno ricercati piuttosto nella riscoperta del mito riscontrabile in classici come Leopardi, Goethe, Hölderlin e Yeats – autore quest’ultimo in cui si è concentrata a più riprese la sua vena esegetica e interpretativa. Tuttavia la vicenda descritta risulta contenuta in un episodio, apparentemente marginale, che si dirama lungo le coordinate di una storia che si fa Storia: il ritrovamento di un fascio di vecchie lettere e di «Una foto color seppia di tre ragazze in posa cinematografica, / come fossero fiori disposti in mazzetto, bellezze vistose / dagli occhi arabi o assiri».
Questo rinvenimento rappresenta l’occasione per ricostruire sapientemente una vicenda dai tratti enigmatici e sfuggenti, inserita in un contesto drammatico quale quello del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra. Si riportano così le vicissitudini occorse alle tre sorelle Gailani, figlie di un importante diplomatico iracheno, Rashid Alì Gailani, ex primo ministro, tra i fondatori del partito arabo nazionalista che contrastava il dominio inglese e alleato di Hitler. Le sorelle, i cui nomi erano Neigle, Widad e Nabilah, incrociarono casualmente l’esistenza di Luisa, madre dell’autrice, e frequentarono per breve lasso di tempo un collegio religioso romano.
Tra affabulazione ed erudizione, accensioni liriche e strenua ricerca documentaria, la scrittura della Copioli si dipana lungo la dorsale di una dimensione prosastica, contestualizzando le vicende dei singoli protagonisti in circostanze che si ricollegano a un periodo storico complesso e sfaccettato. Si intrecciano in continuazione storie private e collettive e la ricerca assume a tratti i connotati di una difficile inchiesta investigativa, offrendoci il variegato affresco di una narrazione che, dal campo di concentramento di Misano dove le sorelle furono rinchiuse nel 1946 dopo la fuga del padre dall’Italia, si sposta in Egitto e in Medio Oriente, alla ricerca di qualche ulteriore tassello atto a chiarire il destino e i «trascorsi tremendi» delle tre donne.
Ne scaturisce un dettato dall’andamento franto e sincopato, che alterna lunghe digressioni storiche e geopolitiche a momenti in cui si affermano prepotentemente esiti visionari, spesso inseriti in un contesto di mera elencazione di oggetti e situazioni, quasi che l’empatia provata per le figure descritte – vero e proprio transfert dell’archetipo materno – non riuscisse ad affrontare altrimenti questioni particolarmente pregnanti sul versante emotivo: «come un uccello canta / ed è un richiamo per chissà che, / centri a intarsi di reticella ad ago / imitazione dei pulvini a Ravenna / Bisanzio e romanico a fili, / sirene draghi leoni per pavesi / familiari meraviglie estensi / che fanno sognare le bambine».
Commoventi i frammenti riportati dalle rare lettere scritte dalle tre sorelle alla madre della poetessa in un italiano sgrammaticato, «appreso al Marymount / non lontano da Villa Torlonia dove stava Mussolini». Contravvenendo a una casualità crudele («Di Neigle, Widad, Nabilah / Luisa/Luigia non seppe più nulla. / Ogni curiosità restò rinchiusa in quel cassetto / che ho riaperto»), l’autrice riesce a trovare le notizie relative ai decessi delle tre donne dopo una vita presumibilmente spesa nel tentativo di svincolarsi da un retaggio ingombrante. «L’eco di quella luce / che era così alta / e va per spegnersi» viene riscattata dalla testimonianza di una parola che, come osserva Citati, vuole «che l’invisibile torni visibile, con le stesse vibrazioni delle creature incarnate».