Lucinda Childs, Anne Teresa De Keersmaeker, Maguy Marin. Tre favolose signore della danza che hanno fatto la differenza nel percorso della coreografia e che Jorgos Loukos, direttore storico del Ballet de l’Opéra de Lyon, ha avuto l’intuizione di unire in una serata memorabile. Il titolo è Trois Grandes Fugues, trittico del 2016 passato in esclusiva nazionale sabato scorso dal teatro Valli di Reggio Emilia per il festival Aperto.
Il tema guida che anima lo spettacolo è presentare tre coreografie nate sulla stessa partitura musicale: la Grosse Fuge op. 133 di Beethoven, opera che appartiene alle produzioni da camera, nata tra il 1825 e il 1826, giudicata ostica all’epoca della stesura, eppure destinata a brillare nel tempo a venire in quanto innovativo capolavoro compositivo.

Per il suo Ballet de l’Opéra de Lyon, Loukos ha chiesto a De Keersmaeker e Marin di rimontare con i danzatori della compagnia francese le loro versioni della Grande Fuga, rispettivamente nate nel 1992 e nel 2001. A Childs ha commissionato invece una creazione. Ed è con l’americana Lucinda che la serata ha inizio. La registrazione è con l’Orchestra de l’Opéra de Lyon diretta da Bernhard Kontarsky, quindi non per quartetto ma per orchestra d’archi. Childs entra in Beethoven accentuandone con una coreografia per sei coppie il nitore nella complessità della struttura.

In un ambiente argenteo, elegante qual è lo stile della coreografa, 12 danzatori in accademico grigio trasformano la musica in una visione di linee che proiettano nello spazio direzioni in fuga verso l’infinito. È una danza che si sviluppa in orizzontale per entrate e uscite in linea parallela secondo il segno riconoscibile dell’autrice. La sezione più lirica della musica apre lo spazio a duetti e quartetti più intimi per poi lasciare che la danza si espanda nuovamente nella fuga.

Altri timbri e scelte per Anne Teresa De Keersmaeker che in Die Grosse Fuge (ogni coreografa declina diversamente il titolo della creazione) si affida per la ripresa con i danzatori di Lione all’esecuzione del Quatuor Debussy. Completo nero e camicia bianca per gli otto interpreti (sei uomini e due donne) che si appropriano di Beethoven attraverso il fluire trascinante del moto. È una danza che si divora lo spazio con rotolate a terra, sospensioni e cadute, gesti ripetitivi in fuga continua nei quali il maschile e il femminile volano insieme intrecciandosi a contrasto. Un moto in cui vibra quella capacità di lavorare sulla relazione tra musica e danza di De Keersmaeker appena rianalizzata per Rosas danst Rosas su queste pagine dal festival MilanoOltre.

Ma a vincere sulle tre versioni è forse Maguy Marin che per la sua Grosse Fugue, scelta nella splendida esecuzione registrata del Quartetto Italiano, mette in scena quattro focose danzatrici: di Beethoven rivelano la passione con straordinaria umanità. Le quattro corrono, saltano, si lasciano andare alla gravità, la contrastano, ci lottano battendosi le mani sul corpo. Sono più ruvide, potenti, sono persone dentro la musica. Ci toccano con la loro individualità e semplice bellezza. E intanto ci accorgiamo a fine trittico di aver viaggiato dentro la fuga beethoveniana assaporandone la ricchezza grazie alle molteplici possibilità di lettura della danza. Un programma emozionante.