A inizio settembre l’Ocse stima per l’Italia un -1,8% del Pil per il 2013. In controtendenza rispetto all’Europa, l’Italia chiuderà l’anno in recessione a causa delle politiche di austerity. Il fallimento di questa ricetta è sotto gli occhi di tutti. Né potrebbe essere diversamente con il cappio delle larghe intese. Creare nuova occupazione – accanto allo stop ai licenziamenti di massa e ai prepensionamenti – è la priorità che dobbiamo darci.Ma il punto è capire come, in quali settori produttivi, a quali condizioni e nell’ambito di quale modello economico.
Ma il punto è capire come, in quali settori produttivi, a quali condizioni e nell’ambito di quale modello economico. Qualsiasi politica per l’occupazione non può non tenere conto dell’impatto che l’introduzione delle nuove tecnologie, “i limiti dello sviluppo” e le tendenze di un mercato del lavoro ormai globale provocano sulla capacità di creare nuovi posti di lavoro (…). Serve una ripresa della produzione di beni e servizi, anche di quelli “fuori mercato”, sia pubblici che del terzo settore, e un miglioramento qualitativo di ciò che si produce.
Un impegno dello Stato nella creazione di lavoro pubblico per la costruzione di piccole opere e il riordino del territorio, nei servizi massacrati dai tagli degli ultimi anni (edilizia scolastica, centri per la prima infanzia, servizi di cura e di sostegno alle famiglie, accoglienza dei migranti, servizi per le pari opportunità, restauro dei beni culturali, produzione di energie alternative) potrebbe essere una delle vie da seguire.
Un nuovo tipo di intervento pubblico potrebbe riorientare le strategie d’investimento dei privati, offrire un sostegno mirato alle imprese che investono in questi settori, nella ricerca e nell’innovazione, nella riconversione di produzioni sbagliate (le armi prima di tutto), ripensando il funzionamento della Cassa depositi e prestiti e prevedendo incentivi mirati.
Vi è poi la questione centrale delle condizioni contrattuali. La ricetta della cosiddetta flessibilità, lungi dal rilanciare l’occupazione, ha indebolito e reso ricattabili i lavoratori. Non serve lavoro precario ma lavoro stabile.
Giustizia fiscale
Ridurre le diseguaglianze significa cambiare radicalmente le politiche fiscali alleggerendo il peso fiscale per chi ha meno e aumentandolo per chi ha di più. I fronti sui quali intervenire sono quattro.
Il governo ha scelto di cancellare in modo indiscriminato l’Imu sulla prima casa per tutti. Ma una rimodulazione progressiva dell’Imu che prevedesse, ad esempio, di esonerare le prime case i cui valori catastali non superino i 300mila euro e al tempo stesso di ristabilire un’imposizione fiscale progressiva sui patrimoni immobiliari di valore superiore a 500mila e a un milione di euro, garantirebbe una maggiore entrata fiscale e sarebbe un atto di giustizia sociale.
E’ necessario ridimensionare il potere della finanza, aumentando al 23% la tassazione sulle rendite finanziarie e modificando il provvedimento adottato dal governo Monti sulla tassazione sulle transazioni finanziarie, estendendola ai derivati e sostenendo una maggior iniziativa europea su questo fronte.
La tassazione sui redditi è oggi molto meno progressiva di venti anni fa. Tutti i redditi superiori a 75mila euro hanno una uguale imposizione fiscale pari al 43%. Modificare le aliquote e gli scaglioni fiscali è necessario, aumentando l’imposizione dei redditi superiori a 70mila euro al 45%, dei redditi superiori a 200mila euro al 50% e degli ultramilionari al 75% e esentando totalmente i redditi inferiori ai 1000 euro mensili. A questi interventi potrebbe poi affiancarsi un nuovo sistema di tassazione ambientale.
Fai la spesa giusta
La lotta ai privilegi, alla corruzione e alle forme di degenerazione della politica è giusta e necessaria, ma non basta. La spesa per il personale della nostra pubblica amministrazione incide per il 20,6% circa sul totale della spesa pubblica e per il 10,4 sul Pil. Gli sprechi veri sono altri: sono i miliardi di euro destinati alla spesa militare (26,7 miliardi nel 2012), in primo luogo agli F35 (più di 54 miliardi previsti in venti anni, 504 i milioni stanziati sul bilancio 2013); sono i miliardi destinati alle grandi opere come la Tav (15-20 miliardi stimati solo per la spesa di competenza italiana); sono i milioni di euro destinati alle politiche del rifiuto dei migranti (almeno un miliardo e 600 milioni spesi tra il 2005 e il 2011); sono i finanziamenti alle scuole e alla sanità privata. Sono queste le spese da tagliare, razionalizzando, certo, la gestione delle risorse destinate ad altri settori di intervento.
Di fronte alle migliaia di famiglie colpite dai licenziamenti e dalla cassa integrazione, servono incisive politiche di redistribuzione, sostenere i redditi, rivedere e rafforzare il sistema delle prestazioni sociali (…). Il dibattito sull’opportunità di introdurre una forma di sostegno al reddito è aperto. Questo dibattito non può fare a meno di tener conto che l’obiettivo della piena occupazione, così come declinato nel Novecento, rischia di rimanere una chimera. Se il lavoro, e unicamente il lavoro, debba rimanere l’unica fonte di reddito in un contesto in cui l’offerta di lavoro è destinata a rimanere a lungo ben superiore alla domanda è un nodo che prima o poi deve essere affrontato (…). La proposta di legge d’iniziativa popolare sul reddito minimo garantito presentata nei mesi scorsi da una larga coalizione di soggetti sociali va in questa direzione.
I fondi per la spesa sociale hanno conosciuto negli ultimi cinque anni tagli draconiani. Il Fondo Nazionale delle Politiche Sociali nel 2008 pari a 1,464 miliardi, è sceso nel 2012 a 42,9 milioni di euro. La quota del fondo distribuita alle Regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano pari nel 2008 a 656,4 milioni, è scesa progressivamente a 518,2 milioni nel 2009, a 380,2 nel 2010, a 178,5 nel 2011 fino ad arrivare a 10,8 milioni nel 2012. Il Fondo per la non autosufficienza introdotto nel 2008 è stato azzerato nel 2011 ed è stato rifinanziato nel 2013 solo con 275 milioni di euro. Il Fondo per le pari opportunità dai 64,4 milioni del 2008 è sceso agli 11 milioni del 2012. Un’evoluzione analoga ha interessato il Fondo per la famiglia: pari a 346,4 milioni di euro nel 2008 (anno in cui il solo Piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi fu finanziato con 166,4 milioni di euro), nel 2012 ha ricevuto uno stanziamento di soli 31,9 milioni di euro.
Al posto di questi tagli, è necessario investire nell’istruzione e nella sanità pubbliche, nella lotta alla povertà e nel sistema di protezione sociale, nei servizi e nelle infrastrutture sociali territoriali, privilegiare i servizi di qualità rispetto ai sussidi economici caritatevoli come la social card.
Un cambiamento reale delle politiche nazionali non può avvenire senza un’inversione di rotta delle politiche europee che assuma l’obiettivo di ridurre la distanza tra i paesi forti del centro e quelli deboli della periferia, di porre un argine alle speculazioni finanziarie, di sostenere il rilancio dell’economia e dell’occupazione con investimenti pubblici, di uniformare le politiche fiscali, di adottare misure tese a ridurre il peso del debito pubblico, di rimettere in discussione le politiche di austerità e i vincoli stringenti del Fiscal compact.
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